lunedì 29 luglio 2013

Parole e corpo



Accantonando la disponibilità del proprio corpo alla relazione, consciamente od inconsciamente, si rinuncia ad una relazione vera. Non identificarsi più in qualcosa di fisso, ma accogliersi come donati a sé dalle energie della realtà che ci attraversano e ci vivono, diventa allora “gnosticismo”: un modo raffinato di astrarsi mentalmente dal mondo, concentrando sui postulati che mediano il proprio rapportarsi alle cose. Il corpo esprime tutta la permeabilità del soggetto alla vita ed anche la realtà soggettiva stessa, prima ch’essa venga attraversata da qualunque altra energia esterna: esso è terra della reciprocità fra ciò che si è e ciò ch’è donato, da fuori, a se stessi.
Senza compromettersi anche fisicamente con qualcuno, non avviene piena relazione. Quando un contenitore è sigillato, il suo “mondo”, per quanto vasto, è ridotto a ciò ch’esso già contiene: solo se il contatto è già previsto da quel mondo chiuso o s’è abbastanza forte da vanificarne le difese, esso può verificarsi. Le posizioni del corpo nello spazio e rispetto agli altri, parlano della disponibilità all’incontro, alla relazione autentica, molto prima e più che le parole. Sedersi strettamente accanto piuttosto che distante; porsi in grembo a qualcuno piuttosto che ritrarre lo sguardo o fuggire quello altrui, sono tutti modi che il corpo ha, naturalmente, di svelare la persona nel porsi relazionale. Le parole infatti ammaliano in perfetta buona fede, a volte così persuasive da lasciar senza parole gli altri: parole e corpo insieme possono ancora mentire, ma solo sapendo di farlo.

domenica 28 luglio 2013

La terra senza il male



Com’è un luogo senza mali? Un posto senza terremoti, un posto senza malattie, un posto senza ladri? Ma i terremoti sono terremoti, le malattie sono malattie ed i ladri sono ladri: non il Male. Che cos’è, allora, il male? Credo che il male sia la negazione della realtà. Quando una persona desidera essere qualcosa che non è; quando qualcuno affida la propria gioia a qualcosa che non può dargliela; quando qualcuno crede che la vita sia più o meno bella a seconda della condizione in cui la si vive, ecco, lì è il male: la vita può essere più o meno dura, più o meno dolorosa, ma non più o meno bella. La bellezza resta tale anche quando inaccessibile: l’assenza del male non va confusa con l’appagamento, poiché sotto gli occhi di tutti è lo spettacolo di gente cui “non mancava nulla”, ma si è suicidata. Tutto il male sta nel rifiuto del reale, che distrugge chi lo vive e chi subisce le azioni di questi. Si nega il reale quando si cercano risposte in luoghi muti, in oggetti inanimati; si nega il reale quando si identifica la propria gioia col successo economico, con il prestigio; si nega il reale quando si alimenta la propria volontà di potenza e così facendo ci si avvia ad esaurirsi nel dispendio continuo delle proprie limitate forze. Volere crescere impegnandosi nel reale, oppure il successo, gli oggetti e la ricchezza, non sono il male: male è viverli slegati da un contesto di realtà.
Se davvero il paradiso esiste ed è la terra senza il male, dovrà essere per forza il luogo del confronto autentico con le cose. Se il dio è il significato ultimo delle cose, la “visione di Lui” non sarà che la piena compromissione con le cose e la vita. Perché non solo il dio sostanzia le cose: le cose stesse sostanziano Lui, ormai. Se davvero qualcosa di simile al paradiso c’è, allora non può essere accessibile che in un sempre più intenso contatto, pienamente umano e non solo mentale e speculativo, con le cose: già da ora, necessariamente sin d’ora. Se davvero il paradiso esiste ed è la terra del reale, allora non potrà che essere, per ognuno ed ogni cosa, la terra della verità di ciascuno ed ogni cosa; non una generica “beotitudine” massificante, ma la consistenza specifica di ognuno, nell’universale: salverà ciò che accomuna e ciò che distingue, ciò che accomuna al dio e ciò che distingue da Lui. Un paradiso così illuminerà le nostre realtà più intime portate a compimento ed in questo compimento, operato dal dono del dio e dall’umana e personale accoglienza di sé e della vita, ciascuno ed ogni cosa troveranno consistenza e senso: nel dio ed in ciò che la vita stessa avrà dato loro di essere.

BIBLIOGRAFIA di riferimento:

GIROMETTI C., Essere intellettuale, in Vita Beffarda, BlogSpot, 1 Luglio 2013.

martedì 23 luglio 2013

Guarda che Luna



C’è qualcosa di immorale, nel trattare la Luna come un sasso: si perde qualcosa in umanità, come se parlando della mamma si dicesse “è un vertebrato”. L’esperienza esistenziale della Luna non ha niente a che vedere coi crateri, con le sonde di ricerca e con le bandierine americane: non ha nulla a che vedere con i minerali, con le tracce d’acqua e gli esperimenti di terraforming. Quando la sua pancia si gonfia, la venerea lattuga “va in cima” e le maree si gonfiano come le acque di un parto: non si riesce più a passare da una scogliera all’altra ed i capelli acconciati tengono meno il taglio. Quando il suo radioso volto splende, non c’è bisogno di torce per ristorare le piante dall’arsura del giorno, dopo il tramonto; le terrazze brillano di luce argentea e i conigli corrono vitali di energia crepuscolare; aprire la catena della bici è più semplice anche nel buio e se lo sguardo si ferma a guardarla, ne è rapito e trasmette al cuore la voglia d’essere migliori.

Sei la Musa. Il mio sguardo trova in te riposo dalle miserie di questa terra e dalle fatiche di questo giorno. Nel tuo grembo trovo pace assieme alle creature della notte e lasciandomi avere da Te, le cose piccole di me son consolate da un respiro più ampio. La morte non fa più paura, Mamma. Amante mia e mia sposa, specchio caldo del mio cuore ardente, pur in placida distanza dalla vita in cui mi trovo. Maestra del fluire e del tornare delle cose, madre dell’attesa ed assassina della mia potenza. Sede della speranza e della rinuncia, Luna, chioma fulgida in cui la mia passione si scioglie nell’oceano dei significati: ti amo. Ero tuo prima ancora di conoscerti, prima ancora di averti: per un richiamo così vivido in me, da sempre, che ora tu porti alla luce del tuo Argento. Ora riconosco la bellezza, ora colgo il valore senza dare valore alle cose. Non vedo sassi in te, ma la follia di chi in te vede soltanto pietra. Nell’alternarsi di luce e di ombre, talmente indifferente ai miei tempi e alle mie voglie e alla mia sete d’amore, tracci ancora nel mio essere una strada che già c’era: avrò la forza di percorrerla? Le lusinghe della “pace” sono forti: non quella come Tu la dai, ma come il mondo la promette: non la pace della luce e delle ombre sopra i giusti e sugli ingiusti, ma quella di un fiammifero scambiato per sole. Che fatica, Luna. Tu splendi e intimorisci perché esisti come sei: che bello.

sabato 20 luglio 2013

Essere-per-dono



« Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. »

(Gesù, Padre Nostro, in LUCA, 11,1 segg.)

Un dio pensato non è un dio di cui si sia fatta esperienza: un dio di cui non si sia fatta esperienza, un dio pensato, non esiste. Un dio pensato come un motore immobile, è un dio ricalcato sul disprezzo umano verso un lavoro strettamente associato alla fatica di procurarsi i mezzi per sussistere: di conseguenza, un dio pensato come non plus ultra della realtà, perfettamente autosufficiente, non può essere pensato, da chi disprezza il lavoro facendo coincidere la fatica con il male, come un dio che non si muova. Ma la fatica non è male ed il lavoro non è solo fatica di sopravvivere: la fatica è fatica ed il male è il male, mentre il lavoro è fatica, soddisfazione, esercizio di sé ed interazione creativa con le cose che sono. L’uomo fa esperienza delle cose: un dio che esiste è un dio di cui si fa esperienza e l’esperienza del dio passa attraverso le cose, per cui il dio e le cose si sostanziano a vicenda, come senso e come sostanza del senso di tutto quanto esiste. Una realtà pensata senza contatto con le cose, è un esercizio autoreferenziale di chi pensa: una realtà ridotta all’aspetto più banale, contingente e “sensoriale” delle cose, è un’esperienza non vissuta secondo l’integrità delle possibilità umane: entrambe le strade sono vicoli ciechi chiusi alla realtà. Dio si muove con la realtà e la realtà che si muove è la sostanza di Dio e non soltanto l’apparire dei suoi propositi: Dio illumina l’esperienza delle cose nell’esperienza di Lui nelle cose e le cose illuminano Dio nel suo essere e nel suo divenire assieme ad esse. L’uomo fa esperienza dell’adeguatezza delle cose ai suoi bisogni e fa esperienza del non sempre facile accesso al bene che la realtà costituisce per lui; fa esperienza del tempo, della morte e fa esperienza dell’eterno presente nel compromettersi gioioso con una realtà che risponde mettendo in moto forze sempre nuove ed impreviste. L’uomo fa esperienza dell’ineluttabilità del dolore e fa esperienza della possibilità di perdonare il dolore subìto: fa esperienza del sacrificio di sé e fa esperienza del trovarsi di nuovo donato a se stesso dalla realtà con cui si era compromesso. Ciò che esiste non può smettere di esistere: se il dolore esiste, questo non può essere negato; se il perdono e l’eterno presente ed il nuovo riceversi in dono dalla realtà, dopo ogni morte, esistono, questi non possono smettere di esistere. L’uomo che si compromette con la realtà avverte tutto il limite ed il dolore della propria condizione, avverte tutta la forza del ritrovarsi donato a se stesso e tutta la forza del perdono.
Il dio soffre insieme all’uomo, perdona assieme all’uomo e si trova di nuovo donato a se stesso dall’uomo che perdona, risignificando con ciò la realtà, mentre si trova compromesso con l’uomo e con essa e assieme all’uomo. L’uomo che perdona come Dio perdona, vede lo Spirito procedere da sé, generato e donato a se stesso dal suo umano perdono: il dio che si compromette, soffre e perdona è vero dio e vero uomo; l’uomo che perdona dopo avere sofferto è vero uomo e vero dio. Il dolore resta sempre lì, non superato, ma emendato nel perdono che restituisce in dono la realtà a se stessa.

BIBLIOGRAFIA di riferimento:

HEIDEGGER M., Essere e tempo (Sein und Zeit, Germania 1927);
LEVINAS E., Totalità e infinito (Totalité et infini: essai sur l'extériorité, Francia 1961).

mercoledì 17 luglio 2013

Transustanziazione



« E il Verbo si fece carne e abitò tra noi; e abbiamo contemplata la sua gloria: gloria, come d’unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità. »

(GIOVANNI, I, 14)

Il dio e la realtà si sostanziano a vicenda. Se Dio è l’autentica ricapitolazione della realtà così com’essa viene incontro all’uomo, anche la realtà costituisce il vero significato e la vera consistenza di Dio. In questo senso, adorare Gesù Cristo è davvero un atto sensato: non per un intelletto che riduca le cose a concezioni metafisiche fondate su un ristretto uso del principio di non contraddizione. Ma per l’uomo savio che vive, e vivendo coglie un ordine per cui gli eventi accadono ed in quegli stessi eventi, così com’essi accadono, sperimenta la consistenza stessa di quell’ordine.
Così le vicissitudini di un uomo accedono alla consistenza della realtà e tale consistenza è quello stesso senso ch’essa rappresenta ed esemplifica. Cristo è allora “Figlio di Dio” perché Quegli è il vero senso in cui leggere la sua persona: nondimeno, è proprio la sua persona a dare consistenza al dio. Cristo è allora il Verbo, ma il verbo di nuove parole: parole che non chiedono di spiegarlo nei termini descrittivi di “natura”, di “accidenti”, di “persona”, ma nei termini allusivi ad una relazione: “Sono Il Simbolo. Guardi me ed incontri il Padre che trova consistenza in me; guardo il Padre e vivo come Lui mi insegna ed il mio vivere per Lui è ciò che lo rende presente, ciò che lo rende sperimentabile, ciò che lo rende reale. Vivo perché Lui mi fa, ma Lui stesso vive perché io lo vivo: la realtà esiste nel senso che il mio vivere rende tangibile ed il mio vivere trova sostanza nelle cose che io vivo secondo il loro ordine, eppure in un ordine nuovo, l’ordine del dio che mi manda”.