sabato 26 ottobre 2013

Prendimi l'anima



Quando si incontra un essere umano, ci si deve per forza giocare tutto. Con gli esseri umani, non si può fare “per finta”. Mai.


In particolare, il vero fallimento della psicoanalisi specialmente freudiana non consiste nella sua comunque riduttiva antropologia, o meglio: non consiste principalmente nel suo impianto teorico, ma nella modalità clinica, dove con più sottigliezza emergono le idee di uomo che stanno alla sua base. Il vero fallimento della psicoanalisi sta nella distanza, frutto di un retaggio platonico prima ancora che positivista, ch’esse mantengono tra paziente e terapeuta. La relazione clinica si rivolge infatti al puro piano intellettuale, poiché puramente concettuale (e perciò non umana) è la “barriera di ruoli” in cui la relazione clinica impone di essere non vissuta, ma espressa verbalmente: essa trascura, della persona, tutto ciò che la rende “molto più” della propria auto-cognizione. Il ruolo di terapeuta va distinto da quello del paziente, ma un conto è distinguerlo come chi offre un termine sano per una relazione e un altro è separarlo tramite la decisione aprioristica su cosa, una relazione autentica con una persona nuova (il paziente), porterà il terapeuta a dover mettere in gioco di sé.
Nonostante la fondazione dell’inconscio abbia permesso alle psicoanalisi, in modi differenti, di aprire lo sguardo su ciò che, della persona, sopravanza la sua autocoscienza, le loro antropologie continuano ad identificare la persona con la sfera psichica, per quanto estesa sino a confini ignoti. Nei fatti, la relazione tra paziente e terapeuta viene di nuovo ridotto ad interazione formale tra due autocoscienze, pure variamente collaborative (uso differenziato del transfert nelle varie "scuole") circa l’emersione dell’inconscio: non si è davanti ad una relazione autentica tra due persone ed è qui che “casca l’asino”.
Certo, non si può pretendere (né sarebbe utile) che il terapeuta condivida col paziente tutti gli ambiti della propria vita: questo non è richiesto in nessun tipo di rapporto, neppure strettamente affettivo. Appare necessario, però, che il terapeuta metta a disposizione della relazione clinica tutte quante le dimensioni della sua persona, affinché al paziente sia offerta (non imposta) un’esperienza autenticamente umana. Come ogni relazione autenticamente umana, questo approccio clinico è evidentemente rischioso ed altamente compromettente per entrambi: terapeuta e paziente devono accettare di intraprendere la relazione senza avere deciso a priori dove questa li porterà.
D’altra parte, in assenza di un’autentica compromissione da entrambe le parti, il paziente viene di fatto lasciato solo proprio in quegli ambiti, diversi dall’auto-coscienza che vive la relazione verbale clinica, in cui “teoricamente” dovrebbero risiedere quelle sue ferite che chiedono cura. Lasciata sola, la persona riproduce il “circolo vizioso” del suo disagio, magari spostandone i sintomi da un piano esistenziale all’altro. La psicoanalisi può raggiungere alcuni risultati nella misura in cui ciò che viene verbalmente posto in relazione clinica, viene condiviso in modo sano: ma un conto è il recupero di atteggiamenti socialmente accettabili; altro è il recupero di maggiore controllo dell’IO sui complessi psichici; altro è la sparizione dei sintomi che avevano spinto in terapia il paziente; altro ancora è il pervenire alla guarigione, ossia all’uomo nuovo.
D’altra parte la terapia, anche qualora fosse impostata secondo un alto grado di compromissione del terapeuta, non necessariamente porterebbe alla guarigione del paziente, anzitutto perché un rapporto umano resta pur sempre una relazione fra due libertà: il modello sano di relazione offerto dal terapeuta richiede il libero assenso del paziente. In seconda battuta, è necessario ammettere che l’occasione di guarire può giungere all’uomo soltanto da una rivelazione del reale entro gli angusti spazi del disagio: rivelazione che può giungere anche tramite l’opera clinica, ma che nella sostanza è manifestazione di una grandezza del reale infinitamente superiore al terapeuta che ne è strumento.

BIBLIOGRAFIA di riferimento:

GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009.