giovedì 26 dicembre 2013

Ritrovarsi



Eric Berne ricomprese la psicoanalisi in una fase storica particolare per le esigenze terapeutiche mentali degli USA: erano gli anni ’60 ed il problema dei reduci di guerra richiedeva sistemi che potessero essere applicati in gruppo e potessero fornire, senza particolare preparazione, risultati soddisfacenti in tempi ragionevoli. L’Analisi Transazionale riprendeva la “seconda topica” di Freud e la riformulava in modo da poter essere associata alle scoperte della psicologia scientifica comportamentista. Per sommi capi, ciò che Freud chiamava “Super-IO” diveniva il Genitore; ciò che prima era detto “IO” diveniva pressappoco l’Adulto; ciò che si diceva “Es” era qui il Bambino.
Così intesi, gli stati dell’IO potevano essere osservati, nelle loro transazioni (interazioni) e nelle loro genesi, secondo le acquisizioni che da Pavlov in poi avevano mostrato i nessi tra cause ed effetti tra gli stimoli esterni e le reazioni dei soggetti: si poteva in questo modo far emergere, dalla sfera dell’insondabile inconscio, tutti quegli automatismi che si sovrappongono al libero arbitrio della persona nelle sue relazioni e scelte quotidiane.
Qui si ritiene che il modello junghiano, di decenni precedente a Berne, possa vantare almeno due enormi vantaggi per il paziente, rispetto a quello transazionale: la possibilità di evolversi fino alla rinuncia di una catalogazione “per tipi” dei soggetti umani; la possibilità di evolversi fino ad uscire dalla pura coincidenza tra persona e mente. Anche Jung sviluppò una sua “teoria dei tipi” (peraltro non molto dissimili, nei contenuti ed in certe interazioni, da quelli di Berne) ed anche l’Analisi Transazionale riconduce le dinamiche dell’individuo al significato che le cose acquisiscono per gli stati dell’IO del paziente, ma la successiva apertura al simbolo che la Psicologia Analitica fece è in direzione di una ricomprensione del reale/mondo, oltre che della persona che lo vive; ed i “tipi” junghiani, una volta connessi ad una nuova immagine del mondo piuttosto che alle dinamiche di causa/effetto tipiche del comportamentismo, evitano la necessità (anche se questa eventualità, come deriva di un’interpretazione troppo ristretta, non viene meno) di rinchiudere l’uomo nella sua sola “sfera mentale”.
Riferendo l’uomo al contesto più ampio del mondo, Jung riconosce negli archetipi non solo il ruolo genitoriale di padre, madre e società, ma anche un retroterra a suo modo “oggettivo” da cui l’essere umano, in quanto tale, non può prescindere di approcciarsi alle cose: molto più di quanto Berne attribuisce, nella sua ottica solo “infra-umana”, al “tipo innato” del Bambino Naturale. Gli archetipi, inoltre, sono concezioni simboliche che sfuggono ad una loro resa “concettuale”: essi, anzi, rappresentano proprio il “di più” che la realtà (anche umana) è, rispetto alla comprensione; essi vivono dell’ambivalenza del mondo rispetto ai riduttivi concetti verbali con cui gli uomini lo sviliscono per volontà di dominio. Il problema è allora, per Jung, non tanto quello di riconoscere i propri “copioni” decisionali in vista di una loro salutare rettifica (conoscere per dominare), quanto piuttosto quello di riconciliare in un “Sé” unitario ciò che al soggetto è richiesto come adattamento alle regole sociali, con ciò cui “inconsciamente” tende per disposizione personale, quale che sia la causa di quest’ultima. Questo processo d’individuazione è del tutto scevro da remore morali e lo stesso Sé è inteso “aldilà del bene e del male”, in quanto bene e male non sono altro che espressioni del preconcetto con cui la società o l’individuo guardano le cose: cose che in realtà sono “molto più” di quanto diano ad essere comprese. Partendo dall’ambivalenza della realtà, Jung insegue la guarigione sul terreno della coscienza simbolica, là dove le cose vengono riconosciute per come sono sperimentate e non in relazione ad un’idea preconcetta (“equivalente universale”, come ad esempio un dio creatore alla luce del quale, soltanto, le cosa hanno valore: posizione, questa, in definitiva nichilista, in quanto riconosce valore nullo alle cose prese in quanto tali); Berne, pure riconoscendo la legittimità di ogni condizione mentale in sé e per sé, di fatto parte da un’idea di salute come “efficienza” (il suo “equivalente universale”) e di conseguenza cataloga i tipi come “bene” o come “male” senza preoccuparsi di riconciliarli, ma anzi di “riadeguali” alla società. Non a caso, l’Analisi Transazionale parla di “forme adattive” efficienti o superate (riferimento al “dio” performance), mentre la Psicologia Analitica parla di individuazione avvenuta o non avvenuta (soggetto recuperato a se stesso e non alla sua capacità di integrarsi più o meno bene).
L’unico modo di riconciliarsi con se stessi e con il mondo è per Jung, a questo punto, quello di compromettersi (con curiosità e stupore) con tutto ciò che in se stessi si prova e con tutto ciò che si vive: qui sta l’indubbio vantaggio di una prospettiva che apre la ragione al recupero del corpo ed apre il soggetto, inteso in senso integrale, alla vastità degli orizzonti vitali che la realtà offre.

BIBLIOGRAFIA di riferimento:

GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009;
FAENZA R., Prendimi l’anima, Medusa film, 2002;
JUNG C.G., La psicologia del transfert, Oscar Mondadori, Milano 1985;
KLEIN M., Autoanalisi transazionale, Astrolabio, Roma 1984;
WITTGENSTEIN L., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino 2007.

lunedì 9 dicembre 2013

Goodbye Platone

   Non ci credo. Non credo alla sopravvivenza di un'anima immortale per il semplice fatto che gli uomini non sono "puro spirito": questa è un'evidenza. Siccome gli uomini non sono puro spirito ed io sono un uomo, un'anima che mi sopravvivesse non sarebbe me: se per amore Dio tenesse accanto a sé la mia presunta anima immortale, ciò che amerebbe non sarei io, ma qualcos'altro, perché non sono un'anima, ma un uomo.
   Se Dio ama me, allora è me che terrà accanto. Non credo che per un cattolico sia necessario professare l'esistenza di un'anima immortale: senza pregiudicare, con ciò, tutta la sua devozione per i santi o per i defunti.
   La resurrezione è "dell'uomo" o non è: o è resurrezione "nella carne" o non è. Se un giudizio finale ci sarà, nell'eterno presente di Dio è anch'esso già presente: se il giudizio finale è in Dio già presente, per quanto non ancora manifestatosi nella storia, allora i nostri santi sono effettivamente già risorti nell'eterno presente del "Dio dei vivi" e possiamo ragionevolmente riferirci a loro come a dei viventi. Preghiamo perciò i nostri santi e i nostri morti, non le loro anime: preghiamo coloro che già sono vivi nell'eterno presente di Dio. Nell'eterno presente di Dio, anch'io sono già morto, già risorto, già giudicato e a Lui piacendo, già salvo. Se anche il giudizio finale dovrà manifestarsi nella storia per coloro che in quel giorno saranno ancora in essa, esso stesso è però già il presente in Dio: è già il presente per tutti coloro che sono in Lui, con Lui e per Lui.