venerdì 13 giugno 2014

Mundus imaginalis

  Se la Creazione è l'atto di un dio, è per forza l'atto di un dio che abbia voluto porre in essere qualcosa di diverso da lui (altrimenti si parlerebbe di "espansione"): o che lo abbia fatto per necessità o che lo abbia fatto per libera decisione, l'atto del creare apre, inevitabilmente, le porte ad uno stato relazionale del dio, che di fatto non può più considerarsi "solo". Se il dio avesse avuto un qualunque bisogno di non essere solo, non avrebbe posto in essere la Creazione per poi abbandonarla a se stessa; se il dio non avesse avuto alcun bisogno di creare, ma avesse deciso di farlo per amore o per cinismo, poco importa: ma non certo per indifferenza), pare ragionevole credere che tanto meno l'avrebbe poi abbandonata.
  Una volta, inoltre, che il dio avesse comunque scelto di non essere più solo, ponendo in essere la Creazione, avrebbe anche implicitamente scelto di legare il proprio senso al fatto stesso di essersi reso creatore. Di conseguenza, SE il dio è creatore, allora la Creazione non può essere semplicemente l'insieme degli enti che la compongono empiricamente o concettualmente, ma dovrà necessariamente essere anche parte del significato del dio.
  Questo porta almeno due implicazioni. La prima è che se l'atto stesso di creare richiede il disporsi alla relazione da parte del dio, allora l'altro dal dio dovrebbe essere da questi posto nella condizione di relazionarsi con lui (ossia col suo senso); la seconda è che la relazione della Creazione col dio, non potendo attuarsi né sul piano della materia, né su quello dell'intelligenza (poiché altrimenti il dio e la Creazione sarebbero sullo stesso piano, in termini materiali e naturali, per così dire. La Creazione, insomma, tornerebbe ad essere una propaggine del dio e non vera alterità da lui), allora tale relazione, come anticipato, potrebbe attuarsi solo sul piano di quel senso che il dio ha necessariamente condiviso di sé nel fatto stesso di creare. Nel senso del dio, inscritto nell'atto creativo, risiede giocoforza anche il senso della Creazione.

Ora, il senso non è "materia" di conoscenza sensoriale e neppure di conoscenza intellettuale, poiché i sensi colgono al massimo l'aspetto formale dell'ente, mentre l'intelletto coglie dell'ente al massimo, per astrazione, l'idea che possa categorizzarlo assieme ad altri enti (natura) od il nesso che lo leghi ad essi per dinamiche di causa-effetto.
  Se la realtà è anche il "senso del dio"; se il dio, già in quanto creatore, è aperto alla relazione e questa relazione gli è possibile solo sul piano del senso, che dev'essere quindi accessibile alla creatura; se il senso non è percepibile né attraverso i sensi, né tramite l'intelligenza, allora la creatura con cui fosse necessario che il dio si relazionasse, dovrebbe avere uno strumento adeguato a percepire negli enti non la forma, non l'idea, ma, appunto, il significato.

Corbin, che nella sua esposizione del sufismo non contempla un'incarnazione quale quella cristiana, chiama a questo punto mundus imaginalis il "piano di senso" entro cui si svolge la relazione fra l'uomo e Dio: piano di senso che è un vero e proprio "mondo intermedio" (fra materia e idea), la cui esistenza è oggettiva quanto lo è quella di Dio, secondo la descritta necessità metafisica che procede dall'assunto che Dio sia il creatore; chiama immaginazione attiva (attiva, in quanto capace di una relazione tanto vitale da incrociare il senso stesso dell'esistenza di Dio) la facoltà umana di cogliere questo "mondo mediano".
  Se Dio, dopo avere creato, ha necessariamente legato il suo senso al suo essere creatore, ossia alla sua creatura cosciente, allora, sempre necessariamente, la "consistenza di Dio" non potrà essere la medesima nei diversi casi in cui l'umanità colga ed alimenti il di Lui senso, oppure no. Il destino di Dio è nelle mani della Creazione: questa trova senso in Dio, che a sua volta trova (oramai) reciprocamente senso in essa.
  In questi termini, l'immaginazione attiva è anche creatrice essa stessa: "creatrice" perché (per la suddetta relazione di interdipendenza che ormai vige tra il senso/esistenza di Dio ed il senso/esistenza della Creazione), nel cogliere la teofania della realtà, in un certo senso produce la stessa possibilità che quella stessa rivelazione si verifichi e che in essa, enormemente, si verifichi Dio stesso.

BIBLIOGRAFIA:

H. CORBIN, L'immaginazione creatrice - le radici del sufismo, Laterza, Bari 2005;
V. EVANGELISTI, Nicolas Eymerich, inquisitore, Mondadori, Milano 1994.

EXO, ESO

  Comunque dicano i vàrii Renè Guenon, il Cattolicesimo resta un percorso iniziatico. Non sto parlando del fatto che, letteralmente, esso dichiari che per accedervi occorra affrontare una "iniziazione": la disciplina dell'arcano, nel senso di "segretezza" con cui tale dinamica era intesa nei primi secoli dell'era volgare, è oramai acqua passata, anzi, il Cattolicesimo si fa (giustamente) gran vanto (davanti alle varie sétte e/o massonerie), di giocare "a carte scoperte" sin da sùbito, senza pericolo di aderirvi "alla cieca".
  Il Cattolicesimo, invece, è un percorso iniziatico perché richiede dalla vita dei discepoli un'incarnazione di valori che è l'unica strada per capire davvero ciò ch'esso  professa, trasmette, vive. Le varie sétte iniziatiche tuttora esistenti, compiono l'ENORME errore di confondere la Comprensione con la conoscenza razionale di significati, sensi, simboli, finalità: non così il Cattolicesimo.
  Il Cattolicesimo è considerato "dogmatico", anziché "iniziatico", per il semplice fatto di avere definito con gli strumenti del linguaggio logico la propria dottrina: siccome tutto è codificato a parole, ossia in concetti, allora il mistero custodito dalla realtà -e che solo il simbolo sa comunicare nel suo rivelo/ri-velo, sarebbe per sempre perduto dal percorso cattolico. Non è così.
  Il Cattolicesimo usa le parole della sua dottrina come simboli: non "segni" che contengono l'esercizio mentale (umano) dei teologi, ma proprio simboli.
  Il Cattolicesimo dice "transustanziazione", "mistero", "Trinità", "ascensione" e poi articola questi dettati in un insieme logico di parole che li descrivano (Aquinate docet): ma non per questo smette di essere un percorso iniziatico.
  Il Cattolicesimo riconosce alla Parola il valore di rivelazione, proprio nei termini in cui, secondo Guenon, ogni autentico simbolo è in effetti una "rivelazione".
  Non è possibile, infatti, sapere qualcosa della transustanziazione senza avere una vita eucaristica; non è possibile intenderre "mistero", "Trinità" o "ascensione" senza essere inseriti nel percorso di sequela.
  Il Cattolicesimo è essoterico in quanto, da subito, annuncia al mondo "di che si tratta": ma "di che si tratti", il mondo, non può capirlo, proprio come non capiva il Signore che parlava pubblicamente in parabole (anch'esse costituite di parole logicamente decodificabili), mentre solo a chi condivideva la Sua vita, riservava la parte più "ghiotta", l'esoterica, quella che davvero innestava l'uomo nella Sua vita nuova. "Vita nuova" che non è "un nuovo sguardo" (mentale) sul mondo, per quanto ricco di conseguenze pratiche, ma un tutt'uno con la sequela stessa.
  Ecco perché il Cattolicesimo è un percorso esoterico "nonostante" la teologia: perché la teologia è "parola trasmessa" attraverso il percorso dei fedeli che la formulano, anzi: è il percorso dei fedeli "fatto parola". E un percorso vitale, si sa, può essere raccontato, ma il suo racconto può diventare "vita nuova" solo nel momento in cui una nuova vita si incammina sul sentiero che gli è stato narrato.