mercoledì 28 dicembre 2016

L'angolo ottuso

L’occasione d’una chiacchierata avuta a cena tra amici, sul tema delle verità religiose, mi porta a scrivere alcune considerazioni sull’utilità del dialogo: fuori dal tema della serata, l’intento di quest’articolo è quello di mostrare che il dialogo possa sussistere solo fra pari e che in assenza di presupposti comuni d’un certo tipo alla comunicazione, il “dialogo” risulti essere in realtà una farsa, ovvero la “maschera” sotto la quale si cela il fine monoteista (si dirà poi come sia qui inteso il termine) di fagocitare l’altro, un po’ come farebbe la matrigna di Biancaneve con qualunque altra bellezza ulteriore alla sua. Come la parola stessa spiega, l’utilità del dialogo starebbe, a sentire Platone nei suoi –appunto- Dialoghi, nell’applicazione del metodo maieutico, del suo M° Socrate, alla consapevolezza di chi vi partecipi. Il metodo maieutico consiste nell’ “incrociare” più esperienze affinché, attraverso una logica comune (quella che sarà poi definita dall’allievo più illustre di Platone, cioè Aristotile), si possa giungere a riconoscere quel che le accomuni ed a distinguere perciò i dati di fatto, universalmente constatabili, dalle circostanze contingenti e percezioni “senso-psico-emotive” soggettive. Il sistema, sviluppato ad Atene, costituisce la fondazione filosofica del metodo scientifico galileiano ed in questi termini la filosofia ateniese non soltanto risulta essere (checché ne dicano gli empiristi) a tutti gli effetti una Scienza, ma addirittura La scienza che fonda tutte quante le altre.


Atene non pretende, come invece lo scientismo attuale, di negare l’esistenza di ciò che non risulti universalmente evidente, ma si limita ad ammettere, appunto, che una constatazione collettiva possa darsi solamente su quest’ultima categoria di fenomeni, materiali o mentali che siano. Il metodo maieutico è teso a riconoscere ciò che necessariamente debba essere (per forza c’è), ciò che in alcun modo possa essere (per forza non c’è) e ciò che non possa essere che la partecipazione personale ad un evento (è un’opinione). Una volta stabiliti quali siano i dati di fatto, Socrate relega tutto il resto entro i confini della sensibilità personale, ovvero entro l’ambito del sistema di valori individuali. A parte la parentesi teocratica, l’Occidente ha sempre ritenuto (ed io con Esso) che gli unici valori definibili attraverso il dialogo, siano quelli relativi ad un fine specifico, con una precisione tanto maggiore, quanto maggiore sia il numero di variabili contemplato nell’analizzare il problema da risolvere. In pratica: solo dopo avere stabilito cosa si voglia ottenere, si può cercare insieme il metodo più produttivo (e quindi più valido) per avere successo. In latino, la parola valore significa “essere valido” e cioè “adeguato”: così com’è il fine a determinar il mezzo (gli occhi non sono adeguati ad ascoltar una canzone), così è lo scopo a determinar il valore (rispetto all’ascolto di musica, gli occhi non valgono niente), ovvero la nozione adeguata a perseguirlo. I valori sono solamente degli attrezzi.


I valori sono soggettivi come lo sono gli scopi; può capitare che uno scopo condiviso (vivere in sicurezza) generi valori condivisi (tutela della persona e della proprietà) sui quali vada a costruirsi una civiltà (cioè l’insieme dei meccanismi d’educazione alla condivisione degli scopi e dei valori suddetti, nonché i prodotti ottenuti conformemente agli stessi scopi e valori): non per questo, valori e scopi diventano dati oggettivi. Dialogare per definire valori “assoluti” veri sempre e dovunque a prescindere dal fatto che siano assunti o meno da qualcuno, non ha, in prospettiva maieutico-scientifica, alcun senso: ciò che qui pare avere senso è lo stabilire insieme “se e cosa” si voglia realizzare collettivamente e quindi elaborare i valori ritenuti utili a tal fine. Discutere senza essersi prima accordati sulla lingua da usare e sui presupposti dell’argomentare, pare inutile come il confrontarsi sui valori senza prima avere stabilito in che termini si reputi utile una collaborazione: fuori di ciò, si ritiene d’entrare nel contesto del “vampirismo psichico”, ovvero nel sopruso tentato di volere ridurre l’altro ai propri scopi, ovvero alle proprie opinioni e cioè ai propri gusti. Volere legittimare l’altro partendo dai propri gusti, significa ergersi a parametro dell’esistenza ed è perciò che in una società multietnica come quella occidentale, il sine qua non di ogni dialogo e di ogni convivenza pare esser inevitabilmente quello di una legittimazione a priori della multiculturalità stessa, cioè la convergenza sul diritto di ciascuno a vivere pensandola come la pensi e perseguendo gli scopi che intenda perseguire, a patto che questo non leda un equivalente diritto agli altri.


Da questo punto di vista, la società multiculturale appare necessariamente materialista sul piano delle relazioni interpersonali, perché come presupposto alla sua sussistenza non può che guardare a ciò che l’altro faccia agli altri e non a ciò che l’altro sia o a come l’altro si qualifichi: se questo è condiviso, allora i cosiddetti “valori non negoziabili” possono essere valutabili come l’appannaggio di chi non accetta che gli scopi altrui stiano sullo stesso piano dei propri, ovvero come una prerogativa dei fanatici, in quanto i valori della convivenza necessitano di essere invece, per l’appunto, proprio negoziati, cioè scelti in accordo. I fanatici invece, dall’ “alto” della loro auto-riferita superiorità morale, si profondono in un paternalismo senza sosta, il quale nasce dal vedere gli altri come coloro che non conoscono ancora i “veri” scopi e non sanno accettare quindi i “veri” valori. Mentre la mentalità liberale è intrinsecamente politeista per i motivi comprensibili a seguire, la mentalità fanatica è intrinsecamente monoteista e non semplicemente monolatrica. I monolatri infatti, pure risolvendosi di non adottare che uno ed un solo scopo nella vita, non negano che altri possano perseguire scopi diversi; il monoteista nega che a qualunque scopo oltre il suo si possa riconoscere una qualsivoglia validità anche solo soggettiva: qui si ritiene commettano un errore logico d’ordine metafisico.


Sul piano ontologico, l’Essere in effetti non può che essere Uno ed uno soltanto in quanto, per definizione, “c’è solo quello che c’è” e quindi all’Essere non può darsi alternativa alcuna. Sul piano esperienziale, non potendo la coscienza essere se stessa se non conoscendo e non potendo conoscere se non comparando, il solo Essere del piano ontologico si esprime in modo polimorfo, secondo una varietà di forme tutte riferite ad Esso e quindi tutte legittimamente esistenti (non esiste vero Essere senza vera esperienza dell’Essere). Il fanatico, confondendo il piano dell’unica essenza col piano dualizzato dell’esperienza, ritiene a torto che, su quest’ultimo, l’unico modo per riflettere l’unità metafisica sia quella di pensarla tutti allo stesso modo, non rendendosi conto che in un regime duale il bianco ed il nero si definiscono e conoscono reciprocamente. Il succo di questo articolato discorso pare sia il seguente: chiunque rifiuti di mettere i propri scopi (valori) sullo stesso piano di legittimità di quelli altrui, assolutizzandoli, è un fanatico il quale, rifiutando con ciò di fruire dell’altro come specchio di sé, non vede che la punta del proprio naso.