mercoledì 22 febbraio 2017

Cristianesimo e simbolo. I, presupposti

In una serie di precedenti articoli (1, 2, 3, 4), proposi una lettura simbolica dell’altare medievale cattolico, alla luce di nozioni esoteriche di quell’Architettura Sacra (“come in cielo, così nel mattone”) che, oggigiorno, è volgarmente stata sostituita dalla mera architettura religiosa (costruzione finalizzata a raduni cultuali): lo potei fare certamente a “tappe”, onde introdurre progressivamente alla problematica, ma senza l’esigenza di fornire troppi riferimenti di carattere filosofico, storico-archeologico e filologico, oltre che senza il bisogno di sconfessare la lettera della dottrina, per procedere nell’esposizione. Volendo, col presente articolo, inaugurare una oramai ritenuta doverosa serie di post, finalizzata ad affrontare in modo sistematico l’esigenza d’una interpretazione simbolica della dottrina cattolica, mi vedo costretto anche ad affinare i miei riferimenti alle fonti e la mia sfrontatezza, poiché, sia chiaro, la lettera della dottrina dovrà essere demolita, dati alla mano, “pezzo per pezzo”. Comincerò con l’affrontare la questione della pertinenza di una lettura simbolica delle Scritture e dell’intera dottrina Cattolica.


Mauro Biglino, nella conferenza che tenne a Milano il 6 Marzo 2016 assieme al Rabbino Capo di Torino ed ad alti esponenti della Teologia Cattolica e Riformata, sollevò ai suoi interlocutori un problema fondamentale: qual è il criterio per stabilire, rispetto alle Sacre Scritture, quali versetti vadano interpretati simbolicamente e quali, invece, andrebbero presi alla lettera? La domanda è tutt’altro che sciocca e mise in non poco imbarazzo gli astanti: se le Scritture non vanno interpretate simbolicamente, come sostiene la Chiesa Valdese, allora diventa arduo giustificare tutti quegli innumerevoli passi biblici che non trovano riscontro nella ricerca storica, per la quale, ad esempio, pare assai improbabile che personaggi quali Abramo siano realmente esistiti; ci si troverebbe, inoltre, costretti a credere che il mondo sia stato creato in sei giorni e circa quattromila anni fa, come di fatto asseriscono i Testimoni di Geova ed i creazionisti evangelici americani. Per contro, se si ammettesse che le Scritture vadano interpretate simbolicamente, allora bisognerebbe paventare l’ipotesi che anche la cosiddetta “creazione”, nonché i miracoli di Gesù e la Sua Stessa supposta "figliolanza divina", andrebbero non presi letteralmente, ma come simbolo di realtà più "sottili", magari di natura filosofica. I tre autori qui ritenuti fondamentali per dirimere la suddetta questione sono il teologo francescano Guglielmo di Ockham (sec. XIII), il teologo luterano Rudolf Bultmann (sec. XX) ed il cattolico Hugo Rahner (+ 1968, fratello di mons. Karl Rahner, questi Cardinale e stimato teologo dell’attuale Chiesa Romana).


Guglielmo da Ockham è un personaggio a mio avviso discutibile per un’infinità di motivi, tra i quali, il più grave, è l’attribuzione della realtà ad un atto volitivo di Dio. Se la realtà è un atto arbitrario della volontà di Dio, essa non è suscettibile di alcuna indagine filosofica, giacché andrebbe a decadere ogni principio di legame logico fra i diversi fenomeni esistenti (Dio potrebbe avere scelto di creare una cosa e contemporaneamente un’altra con essa contraddittoria). Per contro a ciò, i punti di forza del pensiero di Ockham sono a mio avviso due, ovvero l’indipendenza della fede dalla ragione ed il suo famoso “rasoio”, come conseguenza inevitabile dei precedenti assunti. Se Dio agisce nel mondo in modo arbitrario, ciò che vediamo è ciò che vediamo e ciò che Dio ci chiede di credere è ciò che Dio ci chiede di credere; se ciò che vediamo e ciò che Dio ci chiede di credere non sono necessariamente connessi da alcuna logica, allora quando vediamo qualcosa, non pare debba esserci alcun motivo per interpretarla in modo diverso da come appare (“rasoio”), ovvero: l’ipotesi più semplice riguardo un fenomeno è sempre la preferibile. Non condivido affatto le tesi nominaliste (“ogni cosa è a se stante”) del francescano inglese in questione, eppure la sua teologia apre il varco all’ipotesi, attualmente abbracciata in modo ufficiale dalla Chiesa Cattolica (lo testimonia qualunque testo per l’insegnamento della Religione Cattolica nelle scuole primarie), che Scienza e Fede non si contraddicano affatto, poiché, se la prima disciplina risponde alla domanda “come?” (modalità dell’Essere), la seconda risponderebbe a quella “perché?” (significato dell’Essere).


Seguendo per certi aspetti la linea inaugurata da Ockham, il tedesco Bultmann, nel suo testo fondamentale Nuovo Testamento e mitologia (1941), propone una lettura del Vangelo che separa il Gesù storico dal Gesù della fede, così da assoggettare il credente soltanto al secondo. La teoria di Bultmann, anch’essa attualmente accolta dal Cattolicesimo, è che i Vangeli sarebbero un’opera teologica e non storica, per cui sarebbero tesi, attraverso immagini per così dire “poetiche”, a trasmettere, alle nuove generazioni di credenti, tutto l’impatto rivoluzionario che l’esperienza del Cristo avrebbe sortito sui suoi testimoni diretti. Hugo Rahner, nel suo importantissimo Miti greci nell’interpretazione cristiana, segue a sua volta il “filo rosso” che va da Ockham a Bultmann, asserendo che i testimoni diretti di Gesù avrebbero adottato immagini tipiche del loro contesto culturale per riuscire a trasmettere simbolicamente la ricchezza della loro esperienza: da un lato, risignificando completamente l’idea di “mito”, ora asservito alla trasmissione di un’esperienza storica e non filosofica; dall’altro, trasfigurando l’esperienza storica in mito, appunto, al fine di comunicare la prima, per così dire, “su più livelli”, preferibilmente teologici anziché cronachistici. La Chiesa Cattolica, fino all’immediato secondo dopoguerra, sosteneva, nella Costituzione Apostolica Dei Filius (Pio XI), il rapporto “ancillare” della ragione rispetto alla cosiddetta "fede" (per  quanto concerne l'adesione pedissequa ad una dottrina, sarebbe sempre meglio, a mio avviso, parlare di "credenza", dal momento che il termine "fede" rimanda ad una duplice dimensione di fiducia e fedeltà verso un'esperienza od un rapporto vissuti in proprio e non ad una serie di nozioni assunte aprioristicamente), nel senso: la fede non può sconfessare la ragione, ma apporta ad essa alcuni contributi, propriamente dovuti al carattere rivelato del Cristianesimo, non attingibili diversamente (come a dire: certe cose dell’Altro le si può conoscere solo se l’altro le palesa da sé e Dio non fa eccezione a questa regola). Dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965), la Chiesa ritiene che:

«Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani. Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede» (Dei Verbum, III, 12).

Ciò che la Chiesa asserisce oggi, insomma, è la necessità, da un lato, di contestualizzare il Depositum Fidei nell’ambito dei codici comunicativi dell’epoca e dei luoghi in cui fu formulato (cfr. con H. Rahner); dall’altro, l’importanza di spiegare la dottrina con la dottrina e le Scritture con le Scritture, nel senso di sottolineare l’importanza di comprendere il messaggio aldilà della lettera, tramite un lavoro di sintesi che riassuma le “apparenti” contraddizioni che i singoli termini di fede potrebbero rivelare, se presi ciascuno contro gli altri. Da questa introduttiva trattazione, traggo le semplici osservazioni che seguono: 1) non pare affatto necessario scomodare un’eventuale lettura simbolica di un elemento di una dottrina, nel caso in cui esso o non includa fatti “miracolosi” o non includa corrispondenze evidenti con miti preesistenti; 2) appare del tutto legittimo avanzare un’ipotesi di lettura simbolica di elementi della dottrina, qualora essi presentino fatti non giustificabili sul piano esperienziale (“miracoli”) o storico (cioè non suffragati da alcuna prova archeologica e/o filologica e/od in qualche modo documentale) oppure nel caso in cui essi evidenzino connessioni con mitologie ad essi preesistenti; date le ultime considerazioni, nel prossimo articolo procederò anzitutto nel proporre un’illustrazione delle ipotetiche fonti culturali del Cristianesimo.

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