lunedì 29 maggio 2017

Cristianesimo e simbolo. XIII luna nera

Nel primo ciclo di dodici articoli, ho voluto dimostrare sostanzialmente una sola cosa, anche se espressa in tre contesti fondamentali: 1) l’effettiva genesi della dottrina neotestamentaria, ad opera di Paolo di Tarso, costringe a considerare come sostanzialmente mitica la narrazione stessa del NT; 2) gli elementi mitologici, chiaramente confluiti nei racconti evangelici da religioni precedenti, costringono a riconoscere la necessità d’interpretare simbolicamente –ma pur sempre coerentemente con la narrazione letterale- i Vangeli: 3) da un punto di vista religioso, la lettura simbolica della mitologia cristiana –e della relativa dottrina- può darsi secondo due modalità fondamentali, che sono quella dell’esoterismo cristiano e quella del Cristianesimo esoterico. Per esoterismo cristiano intendo quella prassi teologica per cui il credente, dopo avere accolto la narrazione evangelica in senso letterale, s’incammina tra i testi alla scoperta dei continui rimandi simbolici con cui temi, vicende e personaggi, si richiamano gli uni gli altri: ecco allora che il Battesimo (cfr. Mc I, 9-11) è prefigurato nel Diluvio Universale (cfr. Gn VI, 9 – IX, 19) o che l’evento della Pentecoste (cfr. At II, 1-11) “ricompone” la dispersione occorsa attorno alla Torre di Babele (cfr. Gn XI, 1-9). L’esoterismo cristiano è una prassi che fu, un tempo, interna alla disciplina stessa della Chiesa: fino al V secolo d.C., in un periodo in cui la Cristianità, anche quando divenuta religione di Stato, non godeva ancora dell’egemonia e di una presenza per così dire “tradizionale” sui territori imperiali romani, le parti più simboliche dell’insegnamento ai neofiti venivano concesse ai catecumeni solo dopo l’iniziazione battesimale, attraverso una comunicazione chiamata “mistagogia”. L’esoterismo cristiano implica una permanenza nella condizione di credente in una Chiesa (si sarà, di volta in volta, “esoteristi cattolici”, “esoteristi anglicani”, ecc.), mentre il Cristianesimo esoterico coinvolge la mitologia evangelica e le dottrine delle Chiese storiche in un contesto di ricerca ben più ampio di loro e sviluppante una nuova metafisica, l’espressione di nuovi simboli, l’accesso a fonti non canoniche e tutto un lavoro filologico-analitico teso a sviscerare la polisemia di ogni elemento considerato: se un esoterista cristiano, pure informato delle “analogie” degli elementi cristiani coi culti precedenti, vedrà in Maria, ad esempio, sostanzialmente un’immagine della Chiesa, il cristiano esoterico non potrà, attorno a quella stessa figura, non riflettere anche su Sophia, su Iside e la Grande Madre, sull’Uovo Cosmico o sulla barca che, platonicamente, permetta di affrontare i flutti del reale (Fedone XXXV). Ora, nell’ultimo articolo ho riflettuto sulle conseguenze a mio avviso derivanti dall’impostazione mentale del devoto cristiano, ovvero anche del mistagogo o dell’esoterista credenti: in questo articolo intendo porre le basi per il discorso successivo, cioè, come anticipato, per la ricontestualizzazione simbolica della dottrina cattolica in un Cristianesimo esoterico che ne colga gli elementi di continuità con la sapienza antica, disgiungendoli dall’ingombrante retaggio coercitivo del monoteismo ebraico. Se abbiamo affrontato la genesi delle Scritture e della loro dottrina, da ora affronteremo l’evoluzione dei simboli nelle epoche successive, onde cogliere in essi quel filo d’oro per il quale la spiritualità occidentale s’è districata nel labirinto della Storia.


Nell’ultimo articolo, ho individuato il “punto nodale” della dottrina cristiana nel suo monoteismo, il quale gli deriva dall’Ebraismo nella misura in cui quest’ultimo culto fu creazionista: ma andiamo con ordine. Come già spiegato, è l’idea stessa di un creatore a determinare il monoteismo, a tal punto che lo determinerebbe anche qualora il creatore non fosse uno, ma un gruppo. E’ l’idea che la mia esistenza sia dovuta all’atto volitivo di qualcun altro, a rendermi dipendente da quel qualcuno, perché quell’idea fa di me un “nulla”, un qualcosa che non trova consistenza in se stesso, ma soltanto nella volontà creatrice. Ora, tre cose: la prima è che, dal momento che esiste una volontà creatrice esterna a me, io sono ostaggio di quella volontà creatrice e sono costretto da essa ad un “monoteismo ontologico”, per così dire, anche qualora i creatori fossero più di uno. Se fossi l’oggetto di una creazione dal nulla, allora l’unica vera forza a cui sarei soggetto e l’unica vera forza a cui potrei appellarmi per sussistere, sarebbe appunto la volontà del/dei creatore/i; non mi sarebbe possibile alcuna progettazione di me, in quanto la mia stessa libertà sarebbe assoggettata alla volontà di cui sarei una creatura. La seconda cosa è che, nonostante quanto appena detto, se l’evento di una creazione fosse non dico stabilito, ma perlomeno riconoscibile come l’ipotesi più ragionevole, ci si potrebbe fare ben poco: piacesse o non piacesse, ci troveremmo tutti quanti a dovere vivere assoggettati alla volontà del padrone e non potremmo considerare noi stessi, senza considerare anche questa nostra condizione. Il punto è che la creazione non è logica, perché all’Essere non può darsi alcuna alternativa e neppure quella del “nulla” da cui la creazione stessa sarebbe dovuta emergere. L’Essere è tutto ciò che c’è, perché di tutto ciò che c’è, si dice appunto che c’è; per definizione, esiste tutto ciò che in qualche forma (fosse anche solo come ente di pensiero) ed in qualche tempo ed in qualche luogo, sia da qualcuno sperimentabile: questo non solo impedisce al nulla di esistere (impedendo quindi il verificarsi di una creazione dal nulla), ma implica necessariamente anche che i senzienti, cioè coloro che siano capaci di scorgere le cose che esistono, siano parte integrante dell’interna struttura (quindi relazionale) dell’Essere, assieme alle cose stesse. L’Essere, nella sua costituzione eterna e relazionale, articolata in oggetti conoscibili e soggetti conoscenti, è eterno ed onnipervasivo: l’Essere è Uno ed è, costituzionalmente, ciascun soggetto e ciascun oggetto in cui si esprime la sua struttura relazionale; gli enti, soggetti ed oggetti, sono l’Essere ciascuno integralmente e ciascuno per se stesso, senza essere creabili, ma essendo eternamente le parti e l’interezza dell’Essere. Si potrebbe contestare la validità del principio di non contraddizione, ma, per dirla con Cartesio, se esiste ciò ch’è percepibile ed io percepisco me stesso che pensa, non posso che esistere anche qualora tutto quanto, attorno a me, fosse illusione; se percependo me stesso io fossi in grado di percepire erroneamente, non si capirebbe più chi starebbe percependo cosa: dal momento che io percepisco me stesso, ciò dimostra non solo che io esisto, ma anche che non posso percepire che il vero (ovvero la validità del principio di non contraddizione), perché se potessi essere illuso circa la mia stessa esistenza e quindi percepirmi pure non esistendo, non si capisce chi o cosa starebbe vivendo quell’illusione; se qualche volta dimostro di fraintendere la realtà, questo non dimostra che io sbagli a percepire: significa semplicemente che, nel tempo, la verità colta non può essere colta tutta quanta insieme, ma come un “dispiegarsi” parallelo a quello della coscienza.


Se la prima cosa da dire, quindi, è che una creazione dal nulla equivarrebbe sempre ad una condizione di schiavitù, la seconda è che una creazione del genere non pare logicamente possibile: la terza cosa, invece, sta nel ricordare che in ambito Ebraico l’idea di creazione dal nulla non è originaria, ma tarda e mutuata dai cristiani, i quali la introdussero proprio per rifondare la sottomissione al loro dio, su presupposti filosofici, distinti da quelli per cui gli ebrei, prima di loro, si erano sottomessi. Gli ebrei si riferiscono ad un dio che camminò in mezzo al loro popolo, generando in esso il timore dell’annientamento nel caso in cui avesse mancato ai suoi dettami. Lungi dal concepire una qualunque forma di sussistenza dopo la morte, l’Ebraismo antico concepiva la redenzione divina soltanto nei termini di “passare sopra” del dio alle mancanze del popolo: il popolo diserta, il dio s’infuria, poi il popolo si ravvede, ripara ed il dio si placa; lo stesso episodio biblico della cosiddetta “creazione” (cfr. Gn I, 1-2) utilizza il verbo barà, che in ebraico sta ad indicare una manipolazione su contesti preesistenti (viene usato nella Bibbia, ad esempio, per indicare il disboscamento di un’area da rendere edificabile) e mai qualcosa di astratto come una produzione ex nihilo. Mancando ai cristiani l’esperienza punitiva di un dio concreto che marcia in mezzo al popolo e dovendo in qualche modo dimostrare l’esigenza normativa degli insegnamenti di Gesù, ecco che Gesù viene non più solo ascoltato, ma adorato ed adorato in quanto una cosa sola col Padre, il quale, a sua volta, è la volontà che tutto regge e fuori della quale esiste solo la perdizione e la morte. Come abbiamo già ampiamente analizzato, Paolo, trovatosi nell’evidenza di un non ritorno del Messia Gesù, si vede costretto a trasporre la salvazione in uno spazio metafisico divenuto accessibile proprio grazie al sacrificio di quel Cristo che in realtà è il dio stesso: nasce il Peccato Originale come disobbedienza ancestrale e mortifera (giacché la vita umana e l’obbedienza alla volontà divina sono tutt’uno); il Peccato Originale giustifica la venuta salvifica del Cristo; Cristo è normativo in quanto dio che opera la salvezza e dio è normativo in quanto il sussistere degli uomini e la volontà divina sono, appunto, la stessa cosa, per cui fuori della seconda non si ha che la morte eterna. Se a tutto ciò si aggiunge il contributo (in diverso grado) neoplatonico di Padri della Chiesa quali Origene e Sant'Agostino, ecco che il "quadro" della frattura fra il creatore e la creatura si va a completare.


Data la situazione originaria della dottrina paolina che informa le Scritture neotestamentarie, il primo passo per la costruzione di un Cristianesimo esoterico, giunti a questo punto, è quello di affrontare i simboli del mito evangelico (prima) e della dottrina impostasi (poi), per se stessi, ovvero reinserendoli nel contesto che, dagli albori dei tempi, li ha portati a finire fra le “grinfie” della Chiesa: un po’ come ho già mostrato all’inizio di questa serie, individuando le radici pre-bibliche e pre-paoline del Cristianesimo, è necessario cominciare a riconoscere gli usi che determinati simboli ricevettero nella loro storia, a prescindere dall’uso ecclesiale. Il secondo passo è quello di confrontare la mitologia canonica con quanto, dai primi secoli della Chiesa, è giunto fino a noi delle letture alternative della vicenda del Cristo, come quelle degli eretici citati dai Padri della Chiesa, piuttosto che quelle emergenti dai testi apocrifi: il fine di questo confronto è duplice e da una parte riguarda il diverso uso dei simboli e dall’altra, le diverse metafisiche emergenti dal diverso uso dei medesimi simboli. Il terzo passo, che in realtà è contestuale ai precedenti, è quello di riflettere su come le tradizioni religiose abbiano inteso la struttura della realtà attraverso i loro simboli, considerando contestualmente quale metafisica sia sostenibile sul piano della ragionevolezza e come questa possa trovar espressione nei simboli religiosi, così da rendere comunicabile non soltanto il logos della nuova visione emergente della realtà, ma anche e soprattutto l’esperienza vitale del percorso delineantesi. Mi spiego meglio. Poco più sopra, in questa sede, ho esposto quelli che a parer mio sono gli impedimenti più vistosi alla plausibilità di una creazione dal nulla ed allo stesso tempo ho spiegato quali conseguenze implichi invece il credervi. Nello studiare le diverse correnti cristiane, alla luce dei simboli e dei miti utilizzati da ciascuna di esse ed alla luce di come esse stesse abbiano usato quei precisi simboli e quei precisi miti, io posso farmi un’idea delle diverse visioni del mondo attraverso il paradigma metafisico che mi sono dato: da una parte, la mia riflessione sull’inconsistenza della creazione mi porterà a rileggere le diverse correnti con questo grande “filtro”; dall’altro, qualora trovassi simboli e miti cristiani capaci di reggere la mia metafisica, mi troverei nella condizione di integrare quest’ultima proprio grazie alle sfumature esistenziali fornitemi da quei simboli e da quei miti. Se volessi rileggere esotericamente il mito della creazione dell’AT, dopo essermi studiato tutti i precedenti storici di quel mito onde capirne lo specifico uso fattone nella Bibbia, da una parte non potrei che considerare la creazione stessa come un simbolo riguardante il piano manifesto della realtà, conformemente all’eternità dell’Essere che ho preventivamente riconosciuto come imprescindibile; d’altra parte, il ricomprendere l’eternità dell’Essere attraverso quel mito, mi permetterebbe di riflettere su tutta una serie di sfumature e ricomprensioni cui non avrei acceduto, restando chiuso del mio preconcetto. Da questa disamina, mi pare emerga chiaramente, anzitutto, la risposta al “come mai” così tante persone si dedichino alle forme canoniche di Cristianesimo e così poche, invece, si dedichino alla realizzazione di un percorso spirituale che renda conto di sé davanti all’intelligenza del devoto: oggi più che ieri, l’esoterismo è tale, anzitutto, a causa della fatica e delle continue “morti a se stessi” che comportano il suo percorso. Ciò che farò in questa serie, dal prossimo articolo in avanti, sarà pertanto l’articolazione di un Cristianesimo esoterico secondo i tre passi appena definiti; partendo dall’idea di eternità dell’Essere ed affrontando differenti simboli da differenti correnti cristiane, con la loro storia e la loro ricontestualizzazione attorno alla figura di Gesù, proverò a fornire al lettore alcuni elementi utili a colui che vorrà perseguire una visione religiosa non di tipo rivelato dogmatico, ma sapienziale per quanto riguarda la ricerca scientifica dei dati e la logica della loro ricomposizione, nonché empatica per quanto riguarda la percezione di sé verso la realtà.

lunedì 22 maggio 2017

Cristianesimo e simbolo. XII teorEtica

Finora, abbiamo stabilito che il Cristianesimo neotestamentario è il frutto di un’elaborata strategia culturale messa in piedi da Paolo di Tarso, a fronte della predicazione di un rabbino ellenizzato e forse anche promotore di una rivolta armata contro Roma (nella descrizione di Gv XVIII, 3 dell’arresto di Gesù, si dice che contro di lui venne inviata, assieme alle guardie del tempio, una coorte di soldati, la quale, essendo la decima parte di una legione imperiale, sarebbe composta di circa 600 uomini. Ora, aldilà del fatto che nemmeno nei loro sogni più rosei, i sadducei del tempio avrebbero potuto disporre di truppe romane –come le note dell’edizione greca EDB del NT vorrebbe dare a credere, a me pare abbastanza improbabile che un governatore potesse dare il permesso di mobilitare una coorte intera per arrestare “quattro figli dei fiori”, come dice qualcuno). A seguito di ciò, abbiamo verificato l’inconsistenza storica della dottrina del Peccato Originale e di conseguenza della dottrina della redenzione su di essa costruita (non ha senso che Dio redima storicamente una colpa non contratta); a seguito di ciò, abbiamo verificato anche l’incoerenza di un’interpretazione mitica dei vangeli canonici che non considerasse la loro dipendenza ideologica dagli scritti di Paolo, cronologicamente precedenti: se sono le lettere paoline ad informare la teologia evangelica e non viceversa, allora esse stesse sono il parametro interpretativo dei vangeli canonici (e non viceversa). Abbiamo distinto l’esoterismo cristiano esercitante una lettura dei simboli neotestamentari in chiave mistagogica, cioè in ossequio alla dottrina, dal Cristianesimo esoterico, ovvero dalla riformulazione di una filosofia sapienziale attraverso le immagini ed i miti di una narrazione cristiana estesa aldilà dei suoi confini canonici (inclusiva cioè di contributi esterni, come testi apocrifi, leggende, elementi gnostici, ecc.): prima di abbandonare la fase preliminare del presente lavoro, per darci alla ricostruzione di un percorso cristiano “informato” del valore ancestrale delle sue immagini archetipiche, in questa sede vorrei ultimamente fare alcuni accenni più espliciti alle conseguenze antropologiche della weltanschauung neotestamentaria.


Dunque, la dottrina neotestamentaria afferma che, a causa di un errore di valutazione dei primi uomini, tutta l’umanità sia finita preda del male; si penserebbe che questo fatto possa non risultare imputabile a Dio e che quindi descriva una realtà costitutiva dell’uomo (della serie: chi si pone in modo autoreferenziale verso le cose, dividendo bene e male secondo il proprio gusto, va incontro al dolore d’essere deluso), se non fosse che: 1) la dottrina lo associa a Gn III, in cui si parla oggettivamente di cacciata; 2) se il fatto non fosse storico (come già detto), non ci sarebbe niente da redimere… Gesù sarebbe “semplicemente” venuto a mostrare i motivi per cui stare sereni, ma a quel punto non avrebbe più senso l’amministrazione della Grazia e cioè l’opera di mediazione salvifica auto-attribuitasi dalla Chiesa (la quale si ridurrebbe a “banca dati” della testimonianza cristiana); 3) la morale della Chiesa viene esposta in termini legalistici, cioè distinguendo a sua volta il bene dal male in modo auto-referenziale (sebbene attribuendo questa arroganza al suo dio). In pratica le cose, a mio avviso, stanno così: il dio fa l’uomo libero di scegliere e poi emana una legge che l’uomo deve rispettare per mantenersi nelle sue simpatie; l’uomo può scegliere se rinunciare al dono divino della libertà e cioè al dono di godere di se stesso, per mantenersi nell’amicizia del dio o se godere del dono divino della libertà rinunciando però all’amicizia del dio, la qual cosa comporterebbe per lui niente meno che l’estinzione, dal momento che il dio è concepito come l’unico motivo per cui l’uomo stesso valga qualcosa. La prima contraddizione sta nel fatto che il dio crea l’uomo dal nulla e quindi l’uomo è sostanziato da “il dio che lo fa”: se l’unica consistenza dell’uomo sta nella volontà creativa del dio a suo favore, allora dovremmo desumerne che, per l’uomo e secondo la dottrina, godere di se stesso (e quindi essere libero) e godere dell’amicizia del dio debbano essere la stessa cosa, no? No: da una parte, l’uomo sarebbe libero e cioè capace di godere di se stesso a causa del placet del dio a tale riguardo, “epperò” non può mantenere il suddetto placet del dio, se non rinunciando a godere di se stesso in funzione della legge divina. Da una parte, appare logico che, se ciò che sostanzia l’uomo è la volontà del dio, l’uomo non possa trovare vita che dentro i confini di quella volontà; dall’altra parte, però, se l’uomo non esiste che all’interno della volontà del dio, allora non dovrebbe dirsi libero e le sue colpe non dovrebbero essergli imputate.


Ci troviamo chiaramente di fronte ad una trappola: 1) il dio cattolico crea l’uomo dal nulla e perciò l’uomo è sostanziato soltanto dalla volontà del dio; 2) il dio suddetto crea l’uomo dall’esterno e quindi l’uomo non è parte del dio, ma altro da lui…il dio è trascendente rispetto all’uomo e quindi l’uomo, pure esistendo solo entro i confini della volontà del dio, è altro da lui e quindi ha una volontà altra rispetto alla volontà del dio; 3) il dio, quindi, fa esistere l’uomo per un atto della propria volontà e però lo fa esistere come altro da sé, mettendo l’uomo nella disgustosa condizione di non potere godere mai di se stesso, non potendo esistere che dentro la volontà del dio; 4) se ne deduce che l’uomo del Cattolicesimo e del NT è letteralmente uno schiavo, uno la cui sussistenza dipende da un altro, che lo ha creato libero non già perché potesse godere di se stesso, ma solo per conseguenza inevitabile del volerlo distinguere da sé per poterlo, appunto, schiavizzare. La condizione di servitù ontologica testé descritta appare addirittura aggravata dal presunto evento salvifico della Risurrezione: lo stesso dio che palesemente (visto che le cose stanno per la dottrina nel modo già descritto) ha creato negli uomini degli schiavi, ritiene di fare un grande dono all’umanità mandando suo figlio a morire per redimere le colpe di chi si sarebbe posto nell’ombra della morte avendo preferito la propria “inconsistente” volontà creaturale a quella sostanziante del dio. Ora anzitutto ritengo necessario chiarire un presupposto: se Gesù non fosse il dio, quest’ultimo avrebbe mandato a morire qualcun altro al posto suo e quindi si arrogherebbe il titolo di “salvatore” indebitamente; se Gesù invece, come dice la Chiesa, fosse davvero il dio, allora in quanto padrone assoluto di tutto Egli non avrebbe mai davvero rischiato qualcosa di proprio per l’uomo e di conseguenza, la presunta redenzione non sarebbe che una “sceneggiata”. La Chiesa ritiene che il Cristo abbia redento il dolore condividendolo, comportandosi cioè in perfetta continuità con l’atto creativo; siccome le cose valgono o non valgono a seconda che al dio piacciano o non piacciano, dal momento che al dio è piaciuto far esperienza del dolore, il dolore vale: limpido, preciso, inequivocabile. Siccome è la volontà del dio a dare sostanza all’uomo, dal momento che l’esperienza del dolore è diventata la volontà eterna del dio, l’uomo non può più trovare consistenza se non nell’esperienza del dolore: non solo nato per essere schiavo, quindi, ma schiavo precipuamente del dolore… ma non basta ancora. Ho parlato di sceneggiata in riferimento al presunto evento salvifico della Croce/Risurrezione; come nell’Antico Testamento (AT) era l’obbedienza pedissequa alla volontà di conquista di YHWH, a determinare la sussistenza in essere del popolo, così nel NT è l’obbedienza pedissequa all’esperienza della Croce a garantire la Risurrezione: voi per caso riuscite a scorgere una qualche evoluzione, nella situazione umana? Non solo: nonostante il dio, in quanto tale, non abbia davvero mai rischiato nulla per l’uomo, racconta a quest’ultimo di avergli fatto un grande dono d’accoglienza… dono per il quale egli dovrà non solo essergli eternamente grato (nonostante la più completa e manifesta inefficacia), ma per il quale anche dovrà contrirsi enormemente ogni qual volta dovesse retrocedere in obbedienza e riconoscenza. Se nell’AT il timore di Dio consiste solo nella ragionevole paura d’essere puniti dal dio padrone per ogni eventuale disobbedienza a lui, nel NT il medesimo sentimento si riveste di sensi di colpa e di vergogna, nonché di dipendenza affettiva, essendo stata, la volontà del padrone, interiorizzata dal cuore dello schiavo tramite la menzogna di una salvezza impagabile ed invece gratuitamente elargita.


L’assetto ideologico di cui sopra, interiorizzato dal credente, si riproduce in esso attraverso una morale coerente e degna di una psico-sétta. La prima caratteristica del credente è il senso del dovere riguardo il considerare “dono” ogni esperienza della realtà, compresa la sua vita, quale che sia il livello di disagio in essa provato da lui stesso. La vita sarebbe un dono del dio e la salvezza sarebbe un dono del dio e siccome il dio sarebbe buono, anche i doni sarebbero a loro volta buoni: quando il credente vive una situazione o vicenda di disagio, anche solo dovuta al tradimento delle proprie aspettative sul reale, il suo compito è attribuire quello stesso disagio ad una propria mancanza e la sua risposta dev’essere il senso di colpa per non riuscire a cogliere, nel disagio stesso, il dono del dio. Il credente si trova “fratturato” fra il proprio “istintivo” rifiuto del dolore ed il dovere religioso di rendere grazie al dio: in questa situazione, è portato a sentirsi in colpa ogni qual volta dovesse dare retta al senso di rifiuto ed a sentirsi invece frustrato, ogni qual volta dovesse dare retta al dio che lo invita alla riconoscenza. Quanto più il credente aderisce volontariamente alla coercizione della legge divina, tanto più si discosta da ogni aspetto di sé divergente rispetto ad essa; quanto più il credente aderisce per senso del dovere alla coercizione divina, tanto più si sente frustrato; ogni qual volta il credente si scosta dalla coercizione per aderire ad istanze personali, egli si espone al senso di colpa ed alla demolizione della propria autostima, avendo aprioristicamente identificato il proprio valore con l’aderenza alla legge divina. Mi pare evidente che un uomo, il quale da un lato non possa che provare un senso di distanza fra i propri desideri ed una qualsiasi legge imposta dall’esterno e dall’altro abbia identificato il proprio valore con la propria capacità di restare fedele a quella legge esterna, non possa che finire disgregato alla radice del proprio Sé e manipolato, da una dinamica del genere; per contro, qualora quest’uomo riuscisse a gestirsi tanto da aderire esattamente alla legge esterna impostagli, si vedrebbe “gonfiare” esponenzialmente l’ego a causa di ciò, fino a sentirsi nella condizione di ergersi a giudice di chi non riuscisse a far altrettanto: nasce così il moralista. Il moralista cristiano (certo della propria bontà d’animo della quale ritiene d’avere prova semplicemente per la sua pedissequa obbedienza al conformismo religioso) si sente in dovere ed in potere di salvare il suo prossimo, riproducendo nelle proprie azioni la mitologia del Cristo: quando l’altro si lascia persuadere, egli è confermato nel proprio ruolo e di conseguenza vede rafforzarsi il suo ego, in quanto esso dipende, abbiamo visto, dalla sua aderenza alla legge. Quando l’altro non si lascia convincere cercando di schivare il moralista, quest’ultimo si trasforma in giudice, passa dal ruolo di salvatore a quello di carnefice e persegue colui che abbia osato contrapporre le proprie istanze a quelle divine che tengono lui stesso in catene; quando l’altro reagisce malamente all’ingerenza del moralista, il moralista assume il ruolo di vittima che gli appare di nuovo coerente col sacrificio della Croce, salvo poi defluire sempre verso il ruolo del carnefice. Potremmo riassumere la dinamica del moralista attraverso tre ironiche batture: 1) SALVATORE - io sì che sono buono; 2) VITTIMA - io sì che sono incompreso; 3) CARNEFICE - tu sì che sei ingrato!


La tesi del triangolo drammatico, elaborata da Stephen Karpman nel 1968 all’interno degli studi di analisi transazionale già fondati da Eric Berne, esprime chiaramente cosa avvenga qualora la transazione/relazione fra più soggetti smetta di fondarsi sulle rispettive identità reciprocamente riconosciute (“io sono ok e anche tu sei ok”, come si dice in gergo analitico) per incardinarsi invece su presunti ruoli dell’uno rispetto agli altri. Da una parte, il rapporto Creatore/creature e Salvatore/salvati costringe di fatto i credenti ad interiorizzare delle dinamiche relazionali fondate sui ruoli: mentre in epoca pre-cristiana i ruoli erano delle funzioni sociali che non intaccavano la consistenza intrinseca dei soggetti (cioè: "tu sei mio sottoposto e quindi mi obbedisci sennò ti ammazzo, ma dalla tua obbedienza dipende solo la tua sopravvivenza e non anche l’idea che tu, servo, hai di te stesso"), in ambito neotestamentario il ruolo è l’unico modo, per chiunque (dio compreso), di relazionarsi con l’altro da sé. D’altra parte, la dinamica "salvatore > vittima > carnefice" ricalca esattamente la missione del Cristo evangelico e canonico, il quale, come ricorda il Credo niceno-costantinopolitano, anzitutto «per la nostra salvezza discese dal cielo», quindi «patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto» perché, infine «di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti»: c’è un’aderenza perfetta fra i due sistemi (Karpman e NT), come chiunque può constatare. Vorrei concludere questa mia “destrutturazione” del Cristianesimo, realizzata in dodici articoli (alcuni dei quali dipanati in più parti), osservando che il problema fondamentale del Cristo neotestamentario sia sostanzialmente il suo monoteismo, più che le dinamiche illustrate in questa sede: ci sono due fatti, a questo riguardo, da tenere in considerazione. Per prima cosa, vorrei fare notare come siano comuni le due seguenti esperienze: 1) non è possibile espandersi verso il mondo senza, contemporaneamente, lasciare che il mondo si espanda verso di sé, il ché starebbe a significare che, per non chiudersi nell’autoreferenzialità ed implodere in essa, aprirsi alle istanze dell’altro come il Cristo che nel mito si dona per gli uomini, è un’esigenza ineliminabile; 2) coerentemente, non è possibile aprirsi agli altri senza sacrificare qualcosa di sé e anzi, quanto più ci si apre agli altri per non farsi schiavi della propria miopia autoreferenziale, tanto più alto risulta il prezzo da pagare in termini personali. In seconda istanza, vorrei fare notare il fatto che ogni religione precristiana risulta dotata di un pantheon, il quale è preposto ad illustrare e personificare tutte quelle energie che, nel mondo dei fenomeni, precedono ed eccedono l’esperienza del singolo uomo, condizionandola, ma anche sostenendola. Se il Cristo del NT convivesse con altre istanze (guerra, desiderio, saggezza, maternità ecc.) in un pantheon esteso, anziché ridurre a sé ed al proprio dolore tutta quanta l’esperienza esistenziale umana, egli potrebbe benissimo rappresentare lecitamente quel sacrificio di cui s’è detto e che, per l’appunto, è oggettivamente una parte importante del percorso umano. Si potrà dire che anche il Cristianesimo paolino e quindi cattolico, abbia nozione di quelle virtù e di quelle forze che i pantheon precristiani suddividono in diverse divinità: si pensi soltanto alla maternità di Maria, alle virtù teologali e cardinali, alle tre persone divine, ai sette doni dello Spirito Santo, ecc. Nelle religioni precristiane, tuttavia, ciò che il cristianesimo riduce a meri accessorî dell’unico dio, sono invece a loro volta déi, ovvero forze senzienti ed espressive anche di una certa contrapposizione delle une contro le altre.


Nel Cristianesimo paolino ogni forza, ogni pulsione, ogni dono, ogni prerogativa umana, ogni energia cosmica, è unilateralmente soggiacente al dio per il fine ultimo di permettere al credente di obbedirgli più perfettamente; il sacrificio dell’uomo smette di essere un’occasione di uscita dall’autoreferenzialità, per diventare uno strumento di quell’unica volontà, diversa dalla propria, dalla quale l’uomo può sperare d’essere mantenuto in essere; la pluralità delle forze smette d’essere una vera pluralità utile affinché l’uomo, con la sua scelta, possa decidere in che termini costruirsi: poiché il problema, per il cristiano, in realtà non si pone, essendo l’obbedienza l’obiettivo da considerarsi unico e totalizzante per tutto quanto il “creato”. L’essenza stessa di ogni monoteismo storico è l’associazione fra unilateralità dei punti di vista ed aspettativa proiettata esternamente a sé: qualunque monoteista, da un lato può considerare bene solo ciò che il suo dio abbia apprezzato; dall’altro, si aspetta una salvezza sempre proveniente da una legge esterna e mai frutto della propria autonomia: si aspetta, insomma, una salvezza intesa solo come frutto inevitabile della propria obbedienza codificata in un ruolo ("il prete è salvo se vive così, la moglie è salva se vive cosà", ecc.). L'idea di stabilire delle utilità in base a degli obiettivi, l'idea di adeguarsi alle circostanze a prescindere dall'opinione o l'idea di non dovere niente a nessuno e di non avere diritto di pretendere niente da nessuno, sono costitutivamente estranee al monoteista. Il meccanismo drammatico definito da Karpman si attua proprio a causa del tradimento delle proprie aspettative sull’altro: “ma come: io sono così buono e tu non apprezzi? Ma come: io sono così obbediente e non vengo premiato?” Essendo il “bene” una questione definita aprioristicamente dal dio, il monoteista non può essere nel dubbio (direbbe Kierkegaard: “egli è credente appunto perché preferisce le certezze pre-confezionate, alla libertà”): se obbedisce all’idea religiosa di bene, egli è, necessariamente, dalla parte della ragione. Se il credente è obbediente e l’altro non lo premia con la propria riconoscenza, ecco che il primo si sente anzitutto vittima incompresa degli eventi e quindi si trasforma in giudice del suo presunto aggressore: “sei un egoista, sei in preda al demònio!”, lo apostrofa. Il dialogo è impossibile, col monoteista, così com’è impossibile un rapporto paritetico da persona a persona: nella migliore delle ipotesi, si può instaurare con lui una relazione di reciproca sudditanza in cui ciascuno conchiuso nel proprio ruolo, di volta in volta, abbia ragione dell’altro non in virtù della ragionevolezza della propria tesi, ma in forza della morale del padrone ("se fai -ruolo strumentale alla salvezza ambita- il genitore, hai ragione finché sei -dal momento che se fai diversamente da ciò che sei, non hai 'fede'- così; se fai la fidanzata, hai ragione finché sei così; se fai l'alunno, hai ragione finché sei cosà", ecc.). Tra monoteisti, non ha ragione chi propone un percorso coerente con un obiettivo specifico: tra monoteisti, ha ragione chi obbedisce al dio; tra loro, ha ragione chi s’inginocchia di più.

domenica 7 maggio 2017

Cristianesimo e simbolo. XI terzo sommario

Avanziamo in un’ulteriore ricapitolazione del lavoro fino a qui intrapreso con questa serie d’articoli:

IV, primo sommario (presupposti di un’interpretazione mitica del Cristianesimo);
VI, secondo sommario (sottomissione come contributo essenziale dell’Ebraismo);
VII, significanti (riconoscere un simbolo nell’ambito di una narrazione tradizionale);
VIII, esoterismo (stabilire e valutare la legittimità di un’interpretazione simbolica);
IX, significati (Cattolicesimo, esoterismo cristiano e Cristianesimo esoterico);
X, iniziazione (gerarchia, iniziazione e sua parodia nelle Chiese tradizionali).

Avendo affrontato sistematicamente (per quanto non in modo esaustivo) tutte le principali problematiche emergenti dalla necessaria ricomprensione storica della genesi della dottrina cristiana, mi appresto ora a tirare le somme per quanto concerne un giudizio su tale dottrina, alla luce dell’indicazione evangelica per cui dai frutti si riconosce l’albero (cfr. Mt VII, 15-20). Prima di procedere, mi preme riaccennare ad alcune considerazioni: 1) alla luce dei dati finora esposti, appare come estremamente più probabile, rispetto alla tesi ufficiale della dottrina, l’ipotesi di una genesi squisitamente strumentale del NT, nato chiaramente da fonti composite al solo fine di vincere una battaglia culturale della sua epoca di redazione; 2) Quali che siano state le reali idee del presunto rabbino itinerante (ed eventuale insurrezionalista) Jeshua il nazireo, non si può che ammettere l’evidente sincretismo in cui esse siano confluite all’interno del NT, data l’enorme eterogeneità delle fonti di quest’ultimo; 3) Quali che siano state le reali idee del personaggio storico Jeshua, non si può che ammettere come la Chiesa abbia costruito non su di esse la propria azione, ma sul sincretismo esposto nel NT, che pertanto, assieme alla dottrina stessa ed alla Liturgia, risulta essere l’unico documento eventualmente oggetto di una rilettura simbolica del Credo; 4) alla luce di ciò, occorre ammettere però anche come non si possa essere davvero cristiani, in senso tradizionale, interpretando esotericamente le Scritture, visto che le dottrine delle Chiese storiche pretendono di fondarsi su fatti realmente accaduti e in questo senso un esoterista cattolico non può che cogliere, nei simboli del suo culto, rimandi allegorici ("ammiccamenti" culturali e concettuali) ad altri dati tradizionali, sempre in funzione del culto; 5) l’unico contesto di ragionevolezza per le affermazioni evangeliche, alla luce delle loro chiare derivazioni mitiche, è quello simbolico e per quanto appena detto, ne deriva che l’unico modo per essere ragionevolmente cristiani è quello d’essere cristiani esoterici (e non “semplicemente” esoteristi cristiani); 6) non c’è motivo logico per considerare simbolici gli insegnamenti evangelici sulla sottomissione a Dio e storico l’evento della risurrezione, atto per cui sarebbe a sua volta, infatti, necessario dare per storico l’evento che dottrinalmente giustifica la risurrezione salvifica stessa, cioè la caduta dei progenitori ch’è invece attestata in una miriade di culture precedenti a quella ebraica ed è quindi con tutta evidenza un mito (da che ne deriva: non essendo mai avvenuto il peccato, non ha senso che sia avvenuto l’evento della redenzione da un peccato mai compiuto).


7) Come si è visto, credere alla storicità della risurrezione in senso dottrinale, implica credere anche al motivo dottrinale della sua avvenuta, ovvero il Peccato Originale, il che a sua volta implica, necessariamente, l’aderire -magari inconsciamente- ad un’ideologia moralista fondata sulla sottomissione a presunti “valori oggettivi” risiedenti in effetti, in ultima istanza, nella volontà –interiorizzata dal credente- del dio padrone. Questo accade perché, siccome l'accoppiata "peccato-salvazione" associato alla risurrezione storica, assolutizza ogni etica ad essa tradizionalmente correlata ("se c'è una salvezza fatta così, è perché c'è un peccato fatto così; se c'è un peccato fatto così, chiunque faccia così è sbagliato e figlio d'un demonio"), di fatto non si può credervi senza essere sostanzialmente degli assolutisti e quindi dei moralisti; 8) mentre per un esoterista cristiano-tradizionale (cattolico, ad esempio) non risulta legittima alcuna interpretazione che, quale che sia il suo livello “apparente” di ragionevolezza, vada contro la credenza imposta dottrinalmente, ad un cristiano esoterico non pare legittima alcuna lettura che risulti filologicamente e/o semanticamente incoerente con la natura materiale di un mito o di un simbolo analizzati. A rigore di logica, in effetti, che un’interpretazione “letterale” sia ritenuta a buon titolo insufficiente a comprendere un mito, non significa ch’essa non centri niente col reale significato di questo, poiché se proprio quel simbolo è utilizzato, significa che proprio quel simbolo detiene gli attributi per lasciar intendere ciò che il redattore voleva suggerire. Se un mito parla di sottomettersi, anche una rilettura simbolica dello stesso dovrà prevedere una qualche forma di sottomissione, per forza. La differenza interpretativa occorrente tra un esoterista cristiano ed un cristiano esoterico riguarda il fermare o non fermare la propria indagine simbolica ai limiti imposti dalla credenza in una dottrina tradizionale ed è pertanto una questione di limiti posti alla propria apertura conoscitiva; 9) per un esoterista cristiano intellettualmente onesto, pare impossibile restar a identificarsi in una Chiesa per sempre; 10) non è possibile alcuna interpretazione simbolica (e quindi narrativa-educativa) di un’opera sincretica come il NT, senza che si considerino sia la diversità di valori in essa confluenti (cioè quali esigenze portino al suo interno i simboli mazdei; quali, i simboli ebraici; quali, quelli orientali; quali, quelli gnostici; quali, quelli greci; ecc.), che la “scala gerarchica” in cui essi siano quivi stati ordinati (quali costituiscono l’ “ossatura” del senso e quali un semplice “contro-bilanciamento” della prima?).


Parlando di Cristianesimo neotestamentario attraverso l’espressione storica dei suoi frutti, si è già spiegato come appaia in tutta evidenza che la Chiesa Cattolica abbia non già tradito l’insegnamento della lettera evangelica, ma piuttosto portato il suddetto al suo perfetto sviluppo pratico: sia nei modelli di santità da essa prodotti, che nelle azioni di prevaricazione socio-politica, essa ricalca perfettamente la prassi del Padre padrone, così come illustrata nel NT dal Figlio suo (e padrone a sua volta), di ritenere consanguinei (cfr. Mt XII,50) ed amici (cfr. Gv XV, 14) soltanto coloro che si facciano servi, ritenere servi soltanto coloro che obbediscano senza commentare (cfr. Lc VI, 40) ed altresì ritenere comunque “inutili” tutti i loro fedeli, a prescindere da quanto servili essi si siano dimostrati (cfr. Lc XVII, 5-10). Ipotizziamo, per un momento, che il NT parli in senso figurato di un’altra storia; ipotizziamo, per un momento, che il rabbino Jeshua non usasse mai la parola “padre” per riferirsi (come tutti da allora credettero) a YHWH, ma che abbia ben giocato sul fraintendimento per fini, puramente strumentali, di “aggancio” al retroterra culturale dei suoi interlocutori. Ipotizziamo che il NT parli della morte dell’ego in vista del superamento delle apparenze soggettive e del confluire dell’Io in un’originaria “coscienza cosmica” (alla maniera degli gnostici, in un certo senso) da esso definita “comunione col Padre”. Ipotizziamo, per un momento, che il NT utilizzi la parola “servi” per identificare i devoti alla “verità che fa liberi” (cfr. Gv VIII, 31-32) e che poi li riconosca come “amici”, al fine d’identificare la comunione di coloro che siano sfuggiti all’inganno dell’Io obbedendo al (suo) “richiamo della luce”. Ipotizziamo, per un momento, che i servi siano definiti “inutili” per sottolineare la vacuità di qualunque moto dell’ego. Di per sé, ritengo che tutte le letture simboliche testé da me fornite, risultino in un certo senso legittime, cioè coerenti con la lettera evangelica presa in se stessa, ma occorre ricordare che la vera spiegazione dei vangeli risiede nelle lettere paoline, la cui dottrina precede la loro stesura ed anzi ne costituisce il paradigma redazionale (cioè il criterio con cui sarebbero stati riorganizzati i materiali di base nei quattro vangeli canonici ed in special modo nei tre sinottici Marco, Matteo e Luca). Ora, tutta la lettura paolina della vicenda cristiana si muove nella tensione fra due istruzioni fondamentali: la rinuncia al mondo intesa come abbandono d’ogni progetto personale e come sottomissione all’unica autorità dell’apostolo (e fin qui, non avremmo niente di diverso da ciò che accade in ogni psico-sétta) auto-proclamatosi tale, in vista del ritorno imminente del Cristo; la delusione per il mancato ritorno e la conseguente accentuazione del centralismo organizzativo e teologico delle comunità. Il Cristo paolino, cioè il Cristo del NT, è in prima battuta un personaggio che chiede a tutti di rinunciare al proprio discernimento in funzione del suo, minacciando con la morte eterna coloro che non si presteranno (cfr. Mt XXV): ne deriva, in seconda battuta, che la rinuncia all’ego delle ipotesi precedenti si traduca, nella pratica, in una concentrazione esclusiva delle proprie forze e risorse in favore dell’ego “comunitario” e cioè, sostanzialmente, del codice morale imposto dalla catena di comando e di quella dinamica accrescitiva nota col termine “evangelizzazione”. Dalla lettura coerente di tutta quanta (chi non la legge tutta, non è più nella dottrina) la “lettera” del NT, emerge che la reale natura della rinuncia cristiana all’ego consista nella convergenza, di quante più forze possibile, verso l’ambizioso progetto culturale avviato da Paolo: ovviamente, ciò non significa che numerosi simboli del messaggio evangelico non possano esser assunti per educare ad un’altra etica, ad un’altra concezione del mondo rispetto a quelle originali paoline; significa solo che un interprete siffatto ed onesto con se stesso debba ammettere di stare commettendo, in quel caso, un arbitrio rispetto alle intenzioni storiche dei testi.


L’evidenza emergente da un’onesta lettura dell’intero NT esprime, direi, uno scenario strumentalmente neoplatonico nel quale, a fronte di una proclamata irrilevanza della sfera temporale, si reclutano forze per una colossale kulturkampf “al contrario”, nominalmente tesa al farsi accettare dal “Cielo” e tecnicamente impegnata alla colonizzazione religiosa dell’intero bacino mediterraneo (cioè il mondo noto) dell’epoca (e d'oggi). Le radici dell’operazione concretizzatasi nei vangeli canonici risiedono nel progetto delineato dalle lettere paoline e far parlare i di loro simboli prescindendo da questo dato filologico, implica inevitabilmente il porsi fuori dalla realtà oggettiva, ma anche dalla comprensione intima della dottrina tradizionale cattolica, con tutto ciò che ne consegue: 1) se s’interpretano i vangeli prescindendo dal contesto dell’intenzionalità complessiva del NT, si stanno di fatto usando i vangeli per fini personali (quale che sia la moralità privatamente riconosciuta a questi fini personali); 2) se s’interpretano i vangeli per fini personali e non lo si fa inconsapevolmente, allora di fatto lo si sta facendo dando più valore alla propria interpretazione che alla lettera dei testi e di conseguenza, si sta smettendo di considerarli sacri; 3) se si è preferito consapevolmente anteporre le proprie letture simboliche alla comprensione letterale (chiese riformate) e/o dottrinale (chiese antiche) dei testi, dimostrando così la propria miscredenza nella sacralità della lettera degli stessi e/o della Tradizione, allora l’onestà logica esigerebbe di ammettere che anche i codici morali e del NT e della Chiesa, non vadano più da se stessi considerati in termini assoluti e sacrali, ma in termini d’oggetto d’interpretazione simbolica. Di fatto, chi interpreta un simbolo prescindendo dal contesto della sua formulazione, compie sempre un atto proiettivo del proprio ego sul simbolo stesso: in questo senso, lo ripeto per l’ennesima volta, ogni mito canonico può invece essere legittimamente interpretato solamente tramite letture che risultino compatibili non solo con la sua forma e simbologia, ma anche con il contesto più ampio del NT tutto. In tutto questo, la notizia positiva è che un cristiano esoterico, che abbia preventivamente accettato l’esigenza scientifica d’uscire con la sua ricerca dai limiti ideologici del NT e della dottrina, ha la possibilità di estendere la sua conoscenza del fenomeno cristiano ad altre fonti, ad altre dottrine, per poi produrre da esse una propria sintesi originale la quale, essendo slegata da credenze storiciste, si permetta legittimamente d’utilizzare le immagini archetipiche delle varie tradizioni cristiane non già per avvalorare tesi autoreferenziali (cioè fondate su ulteriori credenze e non su argomentazioni di tipo sperimentale e /o logico), ma per esprimere, in modo diverso che con la parola, una weltanschauung ed una metafisica che si reggano in loro stesse, a prescindere dal presunto valore normativo dei dettami divini e dei simboli religiosi da esse assunti.