venerdì 4 agosto 2017

Istinti, padroni, relazione e paure

Certamente la programmazione di specie, in noi mammiferi, incide molto sull’apertura ad un godimento esteso e liberale delle relazioni: il mio “pool genico” vuole riprodursi preferenzialmente e per far questo, utilizza i miei meccanismi d’autodifesa per aggredire i potenziali concorrenti, oltre che per assoggettare chi si relaziona con me, affinché questi non si permetta “divagazioni”. Con lo sviluppo intellettuale, il meccanismo darwinista si ammanta di una parvenza etica e così imparo a ritenere doverosa l’esclusività dei rapporti, con l’inconsapevole fine di produrre un mondo in cui il mio bisogno istintuale- riproduttivo di vincolare l’alterità a me, sia giustificato, coerente e tutelato. Aldilà delle suddette dinamiche, ben note del resto, mi pare non si sia mai abbastanza sottolineato il peso dei condizionamenti culturali esercitati sulla gelosia occidentale dall’etica abramitica, la quale, da un lato, semplicemente “eleva a sistema”, conferendogli una dignità religiosa, il dato etologico della pulsione al possesso in ambito riproduttivo. D’altro lato, l’esclusività –cristiana, diciamo- dei rapporti affettivi ha secondo me un’altra genesi, oltre al bisogno di ordinare socialmente le pulsioni di possesso già presenti negli istinti: essa si collegherebbe anche e soprattutto alla nozione di un dio da cui dipenda la mia esistenza, prima e la mia salvezza, poi.

Se io ho valore solo perché un dio avrebbe deciso di conferirmelo, traendomi dal “nulla”, allora io non ho effettivamente valore in me stesso: sono nella stessa condizione delle donne nella poesia cortese, le quali si elevavano non già per loro stesse, ma solo in quanto amate dal nobile cavaliere di turno. Se io ho valore solo perché un dio mi avrebbe “chiamato per nome” dal nulla, allora anche la mia felicità è per sempre legata a lui, che detiene questo potere di chiamarmi per nome e darmi così consistenza ai miei stessi occhi: mi sento perduto senza qualcuno che mi chiami per nome e questo mi porta, da un lato, a farmi servo di chi mi trae dal nulla; dall’altro, ad assolutizzare chi mi chiama. Il meccanismo religioso, una volta interiorizzato ed associatosi nel profondo alle pulsioni istintuali di possesso-interesse verso l’altro, verrebbe ovviamente replicato in qualunque contesto relazionale e non soltanto nel rapporto col dio che mi avrebbe creato. L’altro, colui che mi attribuisce un qualche valore a causa della sua predilezione per me, è ai miei occhi colui che mi chiama per nome e quindi, colui dal quale dipenderebbe la mia felicità: mi sentirei del tutto impossibilitato a “costruire qualcosa” in assenza di una pedissequa presenza dell’altro, perché interiormente io intenderei il mio costruire, cioè la mia realizzazione, come la condizione di permanenza nelle grazie di colui che mi avrebbe dato sostanza. Qui avrebbe genesi la dedicazione claustrale della vita, come tentativo di associarsi ad un "altro" affidabile.

L’altro, infatti, quasi mai si dimostra all’altezza del mio bisogno di qualcuno che, costantemente, stia davanti a me per pronunciare il mio nome, trarmi dal nulla ed “autorizzarmi” a riconoscermi valore: i bisogni dell’altro, così simili ai miei sia nel desiderio di possesso, che nel cercare riconoscimento, lo possono portare, più o meno spesso, a voltare il suo sguardo da me verso altre persone da possedere ed a cui chiedere riconoscimento. Se l’altro asseconda a mio discapito i suoi bisogni, io mi ritrovo senza nessuno che pronunci il mio nome: mi sento fallito sia nel soddisfacimento dei miei istinti, che nell’autostima. Se l’altro non asseconda i suoi bisogni di possesso e riconoscimento, probabilmente finirà per diventare nevrotico, perdendo le energie-motivazioni a lui necessarie per riconoscermi e servirmiSe l’altro mi asseconda a discapito dei suoi bisogni, contribuisce a rafforzare in me l’identificazione fra il mio valore e la sua presenza; se non mi asseconda più, innesca in me un horror vacui radicato sia a livello istintuale, che a livello culturalmente interiorizzato, tale da scatenare in me quelle forze reattive che, facendo leva sulle pulsioni di sopravvivenza, mi portano a squalificarlo attraverso una dinamica facilmente illustrabile grazie allo schema del “triangolo drammatico” elaborato, verso la metà del ‘900, da Karpman nel contesto dell’analisi transazionale: mi sentirò anzitutto vittima della sua ingratitudine per il mio riconoscimento della sua persona e quindi trasformerò tale vittimismo in un giudizio spietato dell’ingrato in questione, facendomi ben presto il suo carnefice.

Se il mio ragionamento dovesse avere una qualche validità, potremmo espanderlo al fine di cogliere le sue implicazioni in numerosi campi, come ad esempio quello clinico dello studio delle anoressie. Concordo con chi, genericamente, definisce le anoressie “disturbi dell’amore”; non sarebbero a mio avviso disturbi alimentari, ma modalità reattive per fare fronte allo sconvolgente bisogno di un nome pronunciato da terzi (e cioè di una attribuzione di valore dall’esterno): non sarebbero patologie delle società industrializzate, quanto piuttosto delle società cristianizzate. L’anoressico, davanti al pericolo di “restare senza nome”, agirebbe inconsapevolmente nella direzione di emanciparsi da tale paura, non però attraverso una conoscenza di se stesso (cioè attraverso un processo di scoperta del proprio nome da sé), quanto in quella di una rimozione del bisogno: facendo come se questo non ci fosse. Se ho ragione, l’anoressico sarebbe colui che rimuove il ruolo dell’alterità dalla propria vita, per paura che l’altro non sia costante nel conferirgli il valore di cui avverte un disperato bisogno sia per motivi di programmazione di specie, che d’interiorizzazione di un contesto culturale in buona sostanza nichilista, come quello cristiano. L’anoressico costruirebbe attorno a sé una sorta di verginità dal mondo nel disperato tentativo di fare a meno del proprio nome, inteso come attribuzione altrui: questa “verginità”, non a caso direi, pare esprimersi il più delle volte proprio nei due contesti maggiormente relazionali del vivere, come quelli dell’alimentazione e del godimento sessuale. Confondendo inconsapevolmente l’auto-centratura (“la mia prima responsabilità è verso la mia tutela”) con l’autarchia (“posso tutelarmi solo potendo non contare su niente e nessuno d’esterno a me”), l’anoressico andrebbe a chiudersi in un preconcetto di sé, mancando in effetti di una vera e risolutiva conoscenza di sé, cui si perviene invece perseguendo l'esperienza del piacere.

Se ho ragione, si spiegherebbe come mai l’anoressico identifichi talmente tanto se stesso con la propria condizione, da subìre statisticamente enormi contraccolpi in termini dissociativi, qualora essa venisse rimossa. L’anoressico vivrebbe un contesto di autoreferenzialità al quale, nelle sue fasi più evolute, sarebbe idealmente disposto a rinunciare solo a fronte di manifestazioni di devozione e disponibilità incondizionate, da parte dell’altro, nei suoi riguardi: devozione e disponibilità non soltanto di fatto impossibili da pretendere da un essere umano (dato che l’altro ha anch’egli bisogni propri), ma anche praticamente sempre giudicate ancora inadeguate, quale che sia la loro entità. Ne desumo che due fenomeni apparentemente così distanti, come la gelosia e l’anoressia, possano in realtà essere valutati come i due “rovesci” di una stessa “medaglia” definibile come “terrore di perdere il nome”: se su una programmazione di specie già preposta ad un possesso dell’ambiente e degli altri (al fine anzitutto di sopravvivere e poi di riprodurre preferenzialmente i propri geni), si va a sovrascrivere (interiorizzandola come una sorta di “secondo istinto”) una cultura che associa il valore dell’individuo al riconoscimento altrui, allora, in assenza di un autentico lavoro di auto-riconoscimento, le due “soluzioni” plausibili resteranno soltanto, verso l’altro, l’attacco (di gelosia) o la fuga (in se stessi).

Nessun commento:

Posta un commento