domenica 26 febbraio 2017

Cristianesimo e simbolo. II, genesi (3/3)

Nelle prime due parti di questo secondo articolo sul rapporto fra Cristianesimo e simbolo, ho mostrato alcune ricorrenze mitiche di certi temi centrali della dottrina paolina, unitamente ad alcune indicazioni sull'ipotetica serie di circostanze storiche che potrebbero avere condizionato la nascita di un'ennesima eresia sincretista in seno all'Ebraismo, attorno all' "anno 0". Si potrebbe osservare che la pretesa di storicità delle narrazioni evangeliche circa la vita di Gesù ed il Kerygma della fede (passione, morte, discesa agli inferi, risurrezione ed ascensione al cielo di Cristo), rappresentino un unicum nella storia delle religioni, ma anche questo è un dato facilmente smentibile: solo a titolo d'esempi, sia la storia del legislatore Osiride in Egitto, che quelle dell'eroe guerriero Rama e del restauratore della sovranità nazionale Krishna, in India, sono assunti dalle rispettive tradizioni come fatti storici, tanto che della morte di Krishna (avvenuta in circostanze assolutamente identiche a quelle della morte di Achille nell'Iliade) è offerta persino la data esatta. In effetti, è praticamente una costante di tutte le tradizioni religiose della Storia la dinamica per cui, ad un personaggio in qualche modo realmente esistito, si vadano ad assommare col tempo, a seguito delle forti impressioni che questi possa avere suscitato nel corso della sua vita, tutta una serie di archetipi e "luoghi narrativi" tesi a divinizzarlo: divinizzare un eroe od un personaggio influente, nelle civiltà di tutto il mondo e di tutte le epoche, è l'espediente classico con cui produrre un paradigma ("modello") etico attraverso un esempio narrativo da imitare ("epica"). Per una sorta di "rincorsa collettiva inconscia" all'emergere dell'Io dall'indistinzione della natura prima e della collettività poi, vediamo che la dinamica dell'eroe, che soffre e perde la propria vita (cfr. Mt XVI, 24-26) pur di affermare la sovranità di se stesso su se stesso, è la costante che sempre permette la divinizzazione di personaggi la cui parabola storica potrebbe a prima vista apparire deludente o perdente ed anche in questo, la vicenda del Gesù evangelico non pare destare novità: per illustrare forse più efficacemente questo concetto, procederò ora con una brevissima presentazione d'una vicenda messianica del tutto coerente con quanto finora detto ed avvenuta non in uno sperduto villaggio del centro Africa e millenni addietro, bensì nell'Impero Ottomano del sec. XVII d.C., nell'epoca della scrittura a stampa, della burocrazia cartacea e della storiografia post-umanistica e proto-illuminista.


La parabola esistenziale dello pseudo-messia Sabbatai Zevi copre i cinquant’anni tra il 1626 ed il 1676 ed appare tuttora emblematica di come possano andare certe questioni legate a determinate forme mentali: studioso di dottrine esoteriche ed autoproclamatosi Messia d’Israele dopo avere attribuito a se stesso alcune supposte profezie (ricorda niente?) contenute stavolta non nella Bibbia, ma nel testo cabalistico ebraico Zohar, percorre tutto il Mediterraneo ed acquista al culto di se stesso praticamente tutti gli ebrei da Praga all’Egitto con l’aiuto del suo fidato pubblicitario Nathan di Gaza (una sorta di Paolo moderno). Giunto a Costantinopoli, accusato di eresia dalla comunità ebraica ortodossa e quindi denunciato per sedizione presso il governo occupante, straniero e musulmano (ricorda niente?), dalle stesse autorità rabbiniche della città, Zevi finisce con il convertirsi all’Islam per assicurarsi l’incolumità; è a questo punto della vicenda (in questo caso documentata e certamente storica) che avviene il fenomeno a mio avviso più sorprendente. A seguito della sua conversione all'Islam, la delusione della diaspora ebraica che ha confidato in lui è tremenda, con una risonanza continentale; tutto sembra volto a sgonfiarsi nella classica "bolla di sapone", quando Nathan di Gaza ha un'idea: la conversione all'Islam è un gesto sacrificale di auto-annichilimento del Messia in onore di YHWH e come tale diventa prescrittiva per tutti i seguaci di Sabbatai, così come la Croce è di fatto prescrittiva per l'etica cristiana. L’idea di base è molto semplice («questa apostasia confermava la qualità messianica di Sabbatai: essa era un'apostasia necessaria, perché il messia doveva salvare il mondo attraverso l'errore, gettandosi a capofitto dentro l'impurità da redimere. Così centinaia dei suoi seguaci lo imitarono, convertendosi in massa all'islam, restando però interiormente ebrei», da: 30 Giorni, anno XIX, n. 3, marzo 2001, pp. 78-81) e consiste nella discesa agli inferi del messia, affinché la sua guida possa permettere, a chi lo segua, di sperimentare il potere salvifico del perdono di Dio (ricorda niente?). Come si può notare, lo stesso principio di salvaguardia dell’ego che, facendo leva sul desiderio in un determinato contesto culturale (come quello greco di esaltazione della vitalità), è capace di dare vita ad una narrazione eroica fondata sull’iniziativa, in altre circostanze (quelle di una cultura monoteista che concepisce la rettitudine come capacità di “restare inginocchiati” davanti ad un padrone che promette ricompense e punizioni), facendo leva sulla non rassegnazione dell’ego alla delusione riguardo le proprie (perdenti) scelte, è capace di ottenere una narrazione di tipo “anti-eroico” in cui la propria mortificazione è esattamente l'etica incoraggiata.


Riassumiamo. Alla luce della ragione non mi pare ci sia alcun motivo di pensare alla storicità d’un racconto indimostrato e che manifesti da un lato argomenti favolistici e dall’altro, palesi punti di contatto quasi al limite del plagio, con altri racconti preesistenti: da una parte, la straordinarietà d’un’affermazione richiede dimostrazioni straordinarie; dall’altra, non è possibile ritenere storicamente avvenuta una narrazione copiata da una precedente, senza implicitamente trovarsi a ritenere autentica piuttosto l’originale, che la copia. Il Cristianesimo, alla luce delle attuali conoscenze in campo antropologico e di storia delle religioni, non fornisce alcun elemento di novità se non quello di una sintesi fortemente condizionata dal clima storico culturale in cui è nata: non mi pare possibile prendere per storica la narrazione evangelica e continuare a considerare mitiche le narrazioni ad essa precedenti e da cui essa ha quasi necessariamente attinto; del resto, non c’è motivo di pensare che il dio dei cristiani abbia prodotto una vicenda storica del tutto simile a quelle mitiche preesistenti, dal momento che la spiegazione d’una contaminazione culturale è molto più semplice, immediata e ragionevole. Anche non volendo prendere per vero il carteggio apocrifo delle corrispondenze epistolari fra Paolo di Tarso ed il filosofo stoico romano Seneca (carteggio che però era ben noto sia a san Girolamo che a sant’Agostino, nonché preso per valido da entrambi), che starebbe a dimostrare una convergenza d’interessi fra il cittadino romano Paolo e la Corte Imperiale Romana (riguardo la costituzione d’un’etica ellenistica comune che permettesse una migliore gestione in senso autocratico dell’impero stesso), occorre ammettere che, dallo stesso Nuovo Testamento, emerge “in controluce” la figura di un rabbino del suo tempo, già parzialmente ellenizzato e con velleità messianiche, precisamente rivolto al suo solo popolo e persuaso del fatto che, rivolgendosi a lui le presunte profezie bibliche, il Regno di Dio sarebbe giunto a breve (ed avendo lui stesso a capo), entro l’arco della vita dei suoi stessi seguaci (lo vedremo nel prossimo articolo).

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