martedì 14 marzo 2017

Cristianesimo e simbolo. VI secondo sommario

Siamo giunti ad un’ulteriore ricapitolazione del lavoro fino a qui intrapreso con questa serie d’articoli:

IV, primo sommario (presupposti di un’interpretazione mitica del Cristianesimo);
V, kerygma (1/3 – esigenza di un’interpretazione mitica del Peccato Originale);
V, kerygma (2a/3 – interpretazione simbolica del serpente nel giardino dell’Eden);
V, kerygma (2b/3 – rilettura esoterica dell’episodio della cacciata dal paradiso);
V, kerygma (3/3 – inevitabilità per i cristiani d’una lettura mitica della redenzione);

Ho provato a mostrare quanto il Cristianesimo sia debitore, a livello simbolico, di tutta la tradizione mitica dell’Asia Minore: eppure, sono sostanzialmente d’accordo col semiologo cattolico (don) Hugo Rahner, quand’egli afferma che il Cristianesimo s’appropria dei simboli precedenti per farne qualcosa di sostanzialmente altro; sono d’accordo anche con l’opinione della Chiesa Cattolica quando essa, nel documento conciliare Nostra Ӕtate, «riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti» (§ 4). Hugo Rahner, nel suo testo fondamentale Miti greci nell’Interpretazione cristiana (EDB, Bologna 2011, p. 10), afferma che «il cristiano ellenico, nel rappresentarsi e nell’interpretare il suo nuovo mistero con lucida libertà di spirito, [pone] mano ai tesori del passato, per deporli sul suo altare» ed a mio avviso è proprio così: il Cristianesimo assume simboli che non gli appartengono ed arbitrariamente li strumentalizza affinché veicolino un messaggio nuovo, di matrice senza alcun dubbio orientale e senza alcun dubbio ebraica, cioè il monoteismo “rivelato” e la specifica forma di sottomissione all’autorità ch’esso comporta. La mitologia dispregiativamente chiamata pagana è preposta, in ogni cultura, a descrivere la relazione tra i singoli soggetti ed il tutto della realtà: in questo, la mitologia cristiana si mostra del tutto in continuità d’intenti con il passato. In Grecia, il mito dell’epoca omerica narra dell’emergere dell’ego (principio eroico) che tende a divinizzarsi (Achille, Ulisse) a fronte del “muro invalicabile” della Necessità, il quale circonda i mortali, ma anche gli Déi; in epoca classica, cioè in età democratica, il mito dell’eroe lascia il passo al principio di cittadinanza rappresentato dallo sviluppo della filosofia, per il quale, all’emergere dell’ego, si sostituisce il valore della ricerca dell’universale, ovvero di quei termini condivisibili, con la dialettica, nell’agorà politica; in epoca ellenistica, cioè nell’età imperiale prima macedone e poi romana, il valore di riferimento diventa la divinizzazione per elitarismo, grazie ad una mitologia misterica che sostituisce la vecchia imitazione dell’esempio offerto dagli eroi, con un nuovo valore simbolico dato ora agli stessi. Nel mondo romano, il rapporto magico della “prima ora” fra uomini e Déi si trasforma, in età repubblicana, in una mitologia ch’esprime una relazione giuridica fra Déi e mortali, fondata sul do ut des: il popolo di Roma consulta gli aruspici non più, come nella Grecia pre-classica, per cogliere il “disegno” della Necessità e riconoscer “il proprio posto”, ma per capire come “ingraziarsi il cielo” volendo, a prescindere da esso, portar avanti i propri progetti (la differenza fra Roma e Atene è tutt’oggi riscontrabile nelle differenze di “credo” fra cattolici, per i quali lo Spirito procede anche dal Figlio –e quindi anche dal piano terreno- ed ortodossi, per i quali lo Spirito procede solo dal Padre –e quindi solo dal piano celeste-); in epoca imperiale, il culto pubblico romano si ellenizza, promuovendo da un lato la divinizzazione delle cariche pubbliche (all'orientale) e dall’altra, valorizzando l’elezione iniziatica della plebe.


Come si pone il Cristianesimo davanti all’uso del proprio mito, in relazione a quanto detto sul mondo greco e romano? La novità fondamentale del Cristianesimo è la pretesa di storicità della propria narrazione, ma su questo occorre una specifica. I concetti di archetipo, di mito e di simbolo sono risalenti all’epoca illuminista; nella percezione antica, il mito si confonde con la poesia (sono i poeti, ad inventare le leggende) e la poesia si confonde con un’ispirazione soprannaturale che ha come proprio modello l’esperienza sciamanica: in questo senso, qualunque tradizione religiosa si ritiene in un certo qual modo ispirata (spesso addirittura in senso concreto, come nelle civiltà egizia, sumera, centro-africana, indù, maya, polinesiana ed australiana, le cui tradizioni custodiscono i nomi dei personaggi storici dai quali il popolo avrebbe appreso in passato le leggi, l’agricoltura e le arti); la differenza sta nel fatto che l’evento della rivelazione si colloca per i pagani nell’esperienza soggettiva del narratore, ovvero in un tempo mitico ed idealizzato, in un contesto cioè che non costringe mai un popolo a sottomettersi ad essa come davanti ad un’evidenza prettamente storica. Per i pagani, la sottomissione soggettiva alla religione pubblica sussiste giusto nella misura in cui determinati popoli non abbiano ancora visto emergere, dalla loro psiche collettiva, quelle “costellazioni” egoiche, tali da permetter al singolo d’individuarsi rispetto alla coscienza del gruppo: «Come l'individuo non è assolutamente un essere unico e separato dagli altri, ma è anche un essere sociale, così la psiche umana non è un fenomeno chiuso in sé e meramente individuale, ma è anche un fenomeno collettivo. […] Il primitivo si identifica ancora, in maggiore o minor misura, con la psiche collettiva e per tal ragione è equamente partecipe delle virtù e dei vizi di tutti senza alcuna attribuzione personale e senza contraddizione interiore. La contraddizione insorge soltanto quando si inizia lo sviluppo della mente personale e quando la ragione scopre l'inconciliabilità dei contrari. Conseguenza di questa scoperta è il conflitto della rimozione. Noi vogliamo essere buoni e quindi vogliamo sopprimere il male e con questo finisce il paradiso della psiche collettiva» (C.G. JUNG, «La struttura dell'inconscio» in: La psicologia dell'inconscio, Newton Compton editori, 1997, pp. 110; 112). Paolo afferma l’attualità della risurrezione di Gesù rispetto all’epoca corrente; il Cristo paolino non è la forma poetica che prende un’esperienza mistica e non è il ricordo dell’iniziatore ancestrale di una specifica civiltà, come Abramo: è un tizio che gli sbarra fisicamente la strada e lo prende a sberle, costringendolo (parola chiave del suo annuncio!) a non vedere (At IX, 1-9) altri che Lui.


A prescindere dalla storicità o meno del ritorno dai morti di Cristo in un corpo glorioso, la dottrina cristiana si pone in se stessa come necessariamente coercitiva, anzitutto in quanto pretendente d’essere un’evidenza, un fatto: a questo riguardo, trovo importantissimo sottolineare che la distinzione già affrontata tra il Gesù storico ed il Cristo della fede cattolica, se da un lato risulta indispensabile per farsi un’idea sull’attendibilità della credenza paolina, dall’altro è assolutamente ininfluente al fine di valutare l’impatto della dottrina cristiana sul corpo sociale. Dal momento che la Chiesa, nel suo operare di millenni, ha tenuto conto soltanto del Cristo del NT e non del Gesù presunto rabbino galileo itinerante con velleità millenariste e rivoluzionarie, ucciso dai romani per sedizione, va da sé che per comprendere il rapporto fra Cristianesimo e simbolo ci si debba fondare esclusivamente sulle fonti riconosciute legittime dal culto cristiano stesso, ovvero i soli documenti neotestamentari: se il Cristo dei vangeli ha detto ed ha fatto questo e quello, è su quelle sole basi che il messaggio cristiano va interpretato e non su ciò che il “vero” Gesù potrebbe invece essere stato. La storicizzazione dell’evento messianico è l’eredità più autenticamente ebraica della dottrina paolina: essa è inconcepibile fuori dal quadro concettuale dell’alleanza mosaica, altro episodio dalle tinte mitiche, ma collocato in un luogo ed un tempo non verificabili e ciò nonostante considerati “precisi” dalla tradizione. Come ho mostrato circa Gn III, anche riferendovi i passi contigui del NT riguardanti le tentazioni di Cristo e la lotta fra spirito e carne della letteratura giovannea, il dio d’Israele è un padrone ed il NT dipinge il Cristo come figlio del padrone e padrone a sua volta (cfr. Mc XIII, 26; Mt XIII, 41-42; Lc XVII, 7-10): in questo senso, anche il contenuto esplicito del mito cristiano educa di per sé alla sudditanza, anzitutto della Chiesa al dio padrone, la quale si riversa poi in una pretesa sudditanza dei figli ai genitori, degli alunni agli educatori, del popolo ai governanti “per volontà divina” (è il liberalismo, oggi, ad avere abbattuto quest’alleanza fra papato e monarchie), dei laici ai chierici, dei chierici ai vescovi, dei vescovi al Papa e della società civile alla dottrina cattolica (basti pensare alle continue ingerenze politiche della CEI nel panorama civile italiano). Riassumendo, l’educazione alla sottomissione s’insinua nella società, attraverso il mito cristiano, per due vie: quella legalista, imperniata sul dualismobene vs male” (eredità ebraica e mazdea, per cui solo chi aderisce al volere di Dio si salva. Il fatto che nel Cristianesimo l'adesione al bene contro il male diventi una responsabilità personale fatta su criteri pseudo-empatici –cfr. Mc III, 32-35; Gv XV, 14.17-, non altera la sostanziale continuità del principio dualista e legalista coi due culti precedenti) e sulla pretesa di possesso di un’unica verità, in forza dell’unica rivelazione dell’unico dio padrone; quella della pretesa storicità dell’evento Cristo, che costringerebbe ad inchinarsi davanti ai fatti. In tutto il lavoro fino a qui prodotto, ho mostrato la discutibilità della storicità della redenzione e quindi la plausibilissima infondatezza della pretesa di detenzione di una verità, assoluta e rivelata, da parte della Chiesa: nei prossimi articoli continuerò ad analizzare i miti cristiani, al fine di riconoscervi sia gli elementi di continuità col paganesimo (emersione “eroica” della volontà del singolo e percorso di rinnovata accoglienza dell’universale in lui), che gli elementi di continuità con l’ebraismo (servilismo, storicizzazione del mito e relativa sottomissione al dio padrone).

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